La legge di conversione del decreto Dignità prevede un periodo transitorio per l’applicazione delle nuove regole sul contratto a tempo determinato. La norma però non è chiarissima e apre la strada a diverse interpretazioni.
Chi si occupa di personale, sia all’interno delle imprese che come consulente, si sta affannando a trovare soluzioni idonee per sfuggire, prima della data fatidica, alle “maglie” ben più rigorose introdotte, con la reintroduzione delle rigide causali legali, dal nuovo art. 19 del decreto legislativo n. 81/2015, alle quali fa eccezione soltanto quella determinata da ragioni sostitutive.
Va, da subito chiarito, che, ad esempio, la questione delle proroghe non ha, mai, negli ultimi anni, interessato più di tanto gli operatori, in quanto la mancanza di condizioni nella prosecuzione del rapporto faceva si che le stesse potessero essere introdotte, con il consenso, anche tacito o per “fatti concludenti”, dei lavoratori, negli ultimi giorni dei contratti o, addirittura, l’ultimo giorno degli stessi.
Di per se stessa la proroga, applicata ad un rapporto a termine, non necessariamente deve essere apposta al termine dello stesso, potendo, quale prosecuzione del contratto in corso, essere immessa anche con un anticipo, più o meno congruo, prima della scadenza. Prosecuzione del contratto che va inteso come un “unicum” con il lavoratore che continua a prestare la propria attività alle dipendenze del datore di lavoro svolgendo le mansioni riferibili al livello della categoria legale di inquadramento.
Ora, il problema si pone in termini diversi rispetto al passato e, in questa mia breve riflessione, cercherà di inquadrare la questione.
“Nulla quaestio” se, a fronte di un contratto la cui scadenza sia fissata di molto oltre il 31 ottobre 2018, si effettua una proroga fino al termine massimo previsto dalla vecchia normativa, per evitare la “tagliola“ della causale e per “sfruttare” la durata massima possibile, il lavoratore non impugna il contratto a tempo determinato chiedendone la conversione, secondo la previsione contenuta nell’art. 28, comma 2, del decreto legislativo n. 81/2015. In questo caso non ci sarebbe alcun contenzioso.
Se, invece, si dovesse chiedere la nullità del contratto, la prima domanda che il giudice farebbe al datore di lavoro interessato, sarebbe quella di giustificare la necessità di una proroga inserita con tanto anticipo nel contratto. Se le ragioni addotte non dovessero essere ritenute plausibili, potrebbero essere richiamati gli articoli 1343 e 1344 c.c., laddove, attraverso un controllo di liceità, si potrebbe arrivare alla nullità della proroga in quanto la condotta datoriale, pur seguendo uno schema lecito sotto l’aspetto legale, ha perseguito, nel concreto, un comportamento illecito (volontà di aggirare le norme in vigore dal 1° novembre), come ricordato dalla stessa Corte di Cassazione con la sentenza n.10490/2006.
La conversione del rapporto, susseguente alla decisione, si avrebbe dal giorno della pronuncia della sentenza e, per il periodo intercorso tra la data del licenziamento e quello della decisione del giudice, il lavoratore avrebbe diritto ad una indennità di natura risarcitoria ed onnicomprensiva compresa tra 2,5 e 12 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR e liquidate tenendo conto dei criteri individuati sia dall’art. 8 della legge n. 604/1966 che dall’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970 (anzianità aziendale, numero dei dipendenti dell’azienda, contesto socio economico, comportamento tenuto dalle parti nel corso della controversia, ecc.). Sotto l’aspetto interpretativo va tenuto presente anche l’orientamento seguito dalle Sezioni Unite della Cassazione in cui viene affermato il principio secondo il quale la causa di un contratto deve essere reputata illecita, secondo la previsione contenuta nell’art. 1344 c.c., laddove viene posto in essere un comportamento elusivo tale da “aggirare” le norme imperative che fissano limiti massimi di durata del rapporto tra uno stesso datore di lavoro ed uno stesso lavoratore.
Fatta questa premessa che, a mio avviso, va sempre tenuta presente, ritengo opportuno esaminare la questione di una proroga di un contratto a tempo determinato inserita poco tempo prima della scadenza naturale (ad esempio, in un rapporto destinato a finire entro il 31 dicembre prossimo e, quindi, a poca distanza dalla entrata in vigore della nuova normativa, fissata, per tutte le ipotesi, al 1 novembre): in caso di contenzioso giudiziale (perché, in ultima analisi, è sempre questo l’aspetto dirimente) sarà più facile dimostrarne la motivazione (che, ripeto, non può essere quella di “eludere” l’applicazione delle nuove disposizioni), apportando motivazioni legate ad esigenze di natura aziendale più facilmente dimostrabili, tenuto conto della “vicinanza” della scadenza.
È appena il caso di sottolineare come prima della decisione giudiziale sia sempre possibile arrivare ad una soluzione conciliativa, favorita anche dal fatto che il Legislatore ha “allungato” a 180 giorni dal licenziamento il termine massimo per depositare il ricorso presso la cancelleria del Tribunale.
Un discorso del tutto analogo va fatto per i rinnovi che non possono riguardare un contratto a termine che è ancora in svolgimento e che cesserà dopo il 1° novembre 2018 o la stipula di un ulteriore contratto a tempo determinato avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro, laddove non sia stato già raggiunto il limite massimo previsto dalla norma, con il solo scopo di sottoscriverla, senza causale, e di farla valere alla fine del rapporto in corso. Si tratta, a mio avviso, di un chiaro aggiramento della norma che dovrebbe essere fatto presente dallo stesso “Capo” della struttura periferica dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.