Lavoro a tempo determinato: posso dimettermi?

Sia l’Unione Europea che la legge italiana considerano il contratto di lavoro a tempo indeterminato la forma normale di svolgimento del rapporto di lavoro. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, le aziende hanno mostrato un interesse sempre maggiore per il contratto di lavoro a tempo determinato e i dati ci dicono che oggi la maggior parte dei lavoratori viene assunta proprio con il contratto a termine. Impegnarsi a lavorare per una azienda fino ad un certo termine è, però, una cosa seria e la possibilità di dimettersi prima dello spirare del termine risulta assai limitata.
Nonostante nella maggior parte dei testi di legge venga affermata la centralità del contratto di lavoro a tempo indeterminato, sappiamo tutti che per molti lavoratori il lavoro stabile rappresenta una vera chimera. Sempre più spesso le aziende propongono ai lavoratori di essere assunti a tempo determinato. Dopo l’assunzione può succedere che il lavoratore riceva una opportunità di lavoro migliore e decida dunque di sciogliere il vincolo contrattuale prima dello spirare del termine. Ma se vengo assunto con contratto di lavoro a tempo determinato: posso dimettermi?

Per rispondere a questa domanda occorre preliminarmente fare alcuni cenni sul lavoro a termine.

Che cos’è il contratto di lavoro a tempo determinato?
Il contratto di lavoro a tempo determinato è un accordo contrattuale con cui l’azienda assume il lavoratore per lo svolgimento di determinate mansioni e previo pagamento di una determinata retribuzione. Si tratta, dunque, di un normale contratto di lavoro la cui particolarità risiede nel fatto che al contratto viene apposto un termine, ossia, una data al raggiungimento della quale il rapporto di lavoro cesserà. Resta inteso che se nel contratto viene apposto il patto di prova, ciascuna delle parti può recedere liberamente durante il periodo di prova.

L’azienda può liberamente inserire il termine nel contratto di lavoro?
A seguito delle recenti modifiche normative [1] l’azienda non può liberamente apporre un termine al contratto di lavoro. In particolare, azienda e lavoratore possono liberamente stipulare un contratto a termine solo se la durata del rapporto non supera i dodici mesi. Se, al contrario, il contratto ha una durata superiore a dodici mesi nel contratto devono essere indicate le causali che determinano la necessità di prevedere un termine. L’indicazione delle causali – che sono tassativamente indicate dalla legge – è necessaria anche in caso di rinnovo o proroga del contratto a termine che aveva inizialmente una durata inferiore ai dodici mesi ma che, con la proroga o il rinnovo, finisce per superare questa soglia. La durata massima del termine è fissata in 24 mesi.

Quali sono le causali?
Le causali che devono essere indicate nel contratto superiore a dodici mesi sono quelle e solamente quelle indicate dalla legge, ossia:

esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori ;
esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Nel primo gruppo rientra, ad esempio, la sostituzione di una lavoratrice in maternità ovvero, in generale, ogni fatto straordinario che impone all’azienda di assumere una persona per un breve periodo.

Nel secondo gruppo rientrano, invece, i picchi di produzione e di lavoro come, ad esempio, una commessa improvvisa che impone, per un certo periodo, l’assunzione di nuovi dipendenti.

Il contratto a termine può essere prorogato o rinnovato?
Il contratto a tempo determinato può essere prorogato fino ad un massimo di 4 volte e può essere rinnovato. Ovviamente le proroghe e i rinnovi non possono superare il termine di durata massima che la legge fissa in 24 mesi.

L’azienda può recedere dal contratto a termine?
Una delle principali conseguenze dell’apposizione del termine al contratto di lavoro è che – a differenza del contratto a tempo indeterminato – le parti non possono legittimamente recedere dal contratto fino allo spirare del termine.

Nel contratto a tempo indeterminato, al contrario, i contratti collettivi nazionali di riferimento fissano dei termini di preavviso che le parti devono rispettare nell’esercitare il recesso, ossia, nell’intimare il licenziamento, se il recesso proviene dall’azienda e nel rassegnare le dimissioni, se a recedere è il lavoratore.

L’azienda, dunque, non può licenziare il lavoratore a tempo determinato a meno che il lavoratore non ponga in essere un’azione talmente grave da compromettere definitivamente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro come, ad esempio, il furto di materiale aziendale o l’aggressione fisica del datore di lavoro. In tal caso si parla di licenziamento per giusta causa [2].

Il lavoratore può dimettersi dal contratto a termine?
Lo stesso principio si applica nei confronti del lavoratore. Quest’ultimo, infatti, può dimettersi dal rapporto di lavoro prima dello scadere del termine solo se ricorre una ipotesi di dimissioni per giusta causa. Al pari del licenziamento per giusta causa, le dimissioni per giusta causa ricorrono quando il datore di lavoro pone in essere un comportamento talmente grave da non consentire al lavoratore la prosecuzione nemmeno momentanea del rapporto.

Cos’è la giusta causa di dimissioni?
La legge non stabilisce espressamente quali comportamenti del datore di lavoro costituiscono giusta causa di dimissioni del lavoratore. Sarà dunque il dipendente a dover valutare se la condotta datoriale presenta i requisiti di gravità che legittimano le dimissioni per giusta causa. Il lavoratore, chiamato ad effettuare una valutazione non semplice, può utilizzare per meglio orientarsi la casistica esaminata dalla giurisprudenza e a cui fa riferimento anche l’Inps per stabilire quando spetta ad un lavoratore la Naspi [3]. In particolare la giurisprudenza ha affermato che si considerano “per giusta causa” le dimissioni determinate:

  • dal mancato pagamento della retribuzione;
  • dall’aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro;
  • dalle modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative;
  • dal cosiddetto mobbing, ossia di crollo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi o dal “demansionamento”;
  • dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell’azienda [4];
  • dallo spostamento del lavoratore da una sede ad un’altra, senza che sussistano “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” [5];
  • dal comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente [6].

L’elenco non è di certo esaustivo. Sarà il lavoratore a dover valutare se il fatto commesso dal datore di lavoro è talmente grave da costituire giusta causa di dimissioni. Di certo, se il fatto rientra in uno di quelli esaminati sopra tale valutazione sarà molto più semplice ed il rischio di contenzioso con l’azienda sarà inferiore.

Cos’è la risoluzione consensuale del contratto a termine?
Al di fuori del licenziamento per giusta causa e delle dimissioni per giusta causa, la sola ipotesi in cui il contratto di lavoro a termine può essere sciolto prima dello spirare del termine è quella della risoluzione consensuale del rapporto. Si tratta di un accordo scritto con cui le parti decidono di far cessare il contratto prima del termine inizialmente previsto.

Cosa rischia il lavoratore che si dimette prima del termine?
Le dimissioni del lavoratore prive di giusta causa e fuori dall’ipotesi della risoluzione consensuale del rapporto sono dunque illegittime ed espongono il dipendente al rischio di contestazioni da parte dell’azienda. Il datore di lavoro potrebbe infatti agire dinnanzi al giudice del lavoro per ottenere la condanna del dipendente al risarcimento dei danni determinati dalle dimissioni prima del termine. La giurisprudenza, tuttavia, ha affrontato solo il caso opposto, ovvero, il caso in cui l’azienda licenzia il dipendente prima del termine senza che sussista una giusta causa ed il dipendente fa causa per ottenere il risarcimento del danno subito.

In tale fattispecie, secondo parte della giurisprudenza, il danno equivarrebbe alle retribuzioni che sarebbero spettate al dipendente dalla data del recesso alla data del termine [7].

Non risultano precedenti giurisprudenziali che abbiano affrontato il tema della quantificazione del danno sofferto dall’azienda  a causa delle dimissioni anticipate del dipendente.

In tal caso possiamo affermare che il datore di lavoro dovrà fornire la prova dei danni subiti. Non sarà agevole, tuttavia, fornire tale prova in quanto non è sempre semplice dimostrare di aver subito danni effettivamente riconducibili in modo immediato e diretto alle dimissioni.

L’unico parametro oggettivo cui potrebbe fare riferimento il giudice, nella determinazione equitativa del danno subito dall’azienda [8], potrebbe essere rappresentato dall’ammontare dell’indennità sostitutiva del preavviso che il lavoratore avrebbe dovuto prestare se il rapporto di lavoro fosse stato a tempo indeterminato. Il danno potrebbe, dunque, corrispondere a questo parametro.

note
[1] D. Lgs. N. 81/2015 come modificato dalla Legge n. 96 del 9 agosto 2018 di conversione, con modificazioni, del D.L. 12 luglio 2018 n. 87.

[2] Articolo 2119 c.c.

[3] INPS, Circolare n. 163 del 20 ottobre 2003.

[4] Corte di Giustizia Europea, sentenza del 24 gennaio 2002.

[5] Corte di Cassazione, sentenza n. 1074/1999.

[6] Corte di Cassazione, sentenza n.5977/1985.

[7] Corte di Cassazione, sentenza n. 924/1996.

[8] Articolo 1226, c.c.


5 Settembre 2018