Come è noto, il periodo di comporto consiste in un arco temporale durante il quale il lavoratore subordinato, in stato di malattia, ha diritto alla conservazione del posto.
Tale periodo viene stabilito dalla legge o, generalmente, dai contratti collettivi.
Il riferimento alla legge riguarda i dipendenti con la qualifica di impiegato che, secondo l’art. 6 del R.D.L. n. 1825/1924, fruiscono di un periodo di tre se vantano una anzianità di servizio inferiore a dieci anni e di sei mesi, se superiore. Ovviamente, la contrattazione collettiva, nel corso degli anni, ha fornito indicazioni diverse e più favorevoli sia per gli impiegati (per i quali, come detto, esiste una disposizione normativa) che per gli operai, per i quali la legge del 1924 non diceva nulla. Di conseguenza, si può ben affermare che la fonte da prendere quale parametro di riferimento siano i contratti collettivi applicati nelle singole aziende. Questi ultimi, oltre a prevedere periodi di conservazione del posto più lunghi, hanno definito criteri di calcolo che portano a prendere in considerazione il “comporto secco” (unico periodo di morbilità) ed il comporto per sommatoria, caratterizzato da più eventi di malattia separate e reiterate che, sommati tra di loro, portano al superamento del limite massimo stabilito per il comporto. Ovviamente, al superamento del termine ultimo del periodo, il datore di lavoro può risolvere il rapporto di lavoro ex art. 2110 c.c..
Questa breve premessa sul periodo di comporto rappresenta l’occasione per esaminare i contenuti di una recentissima sentenza della Corte di Cassazione, la n. 9095/2023, con la quale i giudici di Piazza Cavour hanno confermato la nullità di un licenziamento riguardante un lavoratore portatore di handicap, adottato dall’azienda, avuto riguardo al periodo massimo di comporto previsto dal CCNL che, nella definizione dell’istituto, non aveva previsto una differenziazione tra i dipendenti “normali” e quelli disabili: la Corte aveva ravvisato in tale disposizione contrattuale una sorta di discriminazione indiretta.
Tale ragionamento prende lo spunto dall’art. 2, comma 1, lettera b) del D.L.vo n. 216/2003 che definisce la discriminazione come indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale, in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.
La Suprema Corte, annullando il licenziamento (non si rinvengono correttivi nella sentenza), afferma che, nel caso di specie, la contrattazione collettiva opera una sostanziale discriminazione indiretta in quanto non prevede che per i lavoratori disabili, più soggetti per il loro particolare “status” ad eventi morbosi correlati alla patologia dell’invalidità, il periodo di comporto sia diverso (e più lungo) rispetto a quello degli altri dipendenti: di conseguenza, ciò va ad interferire con le norme relative alla discriminazione indiretta che sono state sopra riportate.
Indubbiamente, la nullità del recesso va a colpire il comportamento del datore di lavoro che, sul punto, non ha fatto altro che allinearsi con la previsione del CCNL e che, in futuro, applicando le regole della contrattazione collettiva che non fa alcuna distinzione, corre il rischio fondato di vedersi annullare futuri licenziamenti adottati sulla base di tali indicazioni.
Ma, allora, se questa è la situazione cosa occorre fare?
La sentenza della Corte di Cassazione invita, quindi le parti sociali che già non avessero previsto un differente trattamento relativo al periodo di comporto (ad esempio, la non computabilità dei giorni di assenza legati direttamene alla patologia invalidante), ad aggiornare le norme contrattuali. Ciò dovrà essere fatto dalla contrattazione nazionali ma, a mio avviso, visti i tempi lunghi che, sovente, si esauriscono nel momento in cui si rinnovano i testi dopo la scadenza, un certo spazio lo potrà avere, senz’altro, la contrattazione aziendale di secondo livello, ove per la parte dei lavoratori, legittimati alla sottoscrizione, son le organizzazioni territoriali o di settore delle associazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale, le loro RSA o la RSU, come ci ricorda l’art. 51 del D.L.vo n. 81/2015..