Abbiamo ricevuto un’offerta migliore e non vogliamo perdere l’occasione della nostra vita, ma siamo già assunti a tempo determinato: possiamo licenziarci?
Il lavoro è un lunghissima scala intervallata da infinite porte. Si sale, si scende, ci vengono sbattuti portoni in faccia e a volte ci vengono aperti. La mobilità, volenti o nolenti, è la condizione dei nostri tempi e stiamo imparando a restarci a galla in questo mare di occasioni e delusioni. Succede però a volte che dopo tempi di incertezza, ci venga aperta, anzi, spalancata davanti, la porta della nostra vita: il lavoro dei nostri sogni e per sempre (quel ‘per sempre’ nient’altro è che il tanto agognato tempo indeterminato che, nonostante tutto, resta l’obiettivo principe di molti di noi). E questa porta ci viene aperta mentre siamo però alle dipendenze del nostro attuale datore di lavoro con contratto a tempo determinato. Non abbiamo dubbi, vogliamo solo chiudere con quel contratto e correre verso la nostra irrinunciabile occasione: possiamo? È possibile licenziarsi da un contratto a tempo determinato? Diciamo subito di sì. O perlomeno è possibile, ma solo a strettissime condizioni. E non sempre queste condizioni riescono a realizzarsi, a meno che non ci sia un buon rapporto personale con il proprio datore di lavoro o che questi non sia una persona comprensiva. Proviamoci però.
Contratto a tempo determinato: cos’é
Capita che un’azienda in specifici periodi dell’anno abbia picchi di lavoro maggiori rispetto ad altri. Oppure che in un particolare momento di vita, la stessa azienda si impegni in un nuovo progetto. Potrebbe aver bisogno di risorse aggiuntive, senza però volersi legare a vita a queste risorse. Ecco che allora sceglie di assumere dei ‘dipendenti a tempo’: risorse che lavorino a tutti gli effetti come dipendenti subordinati, ma per una durata ben precisa e stabilita, giusto il tempo di realizzare quel progetto o evadere tutto il carico di lavoro in più che i normali dipendenti non possono fare in quel periodo dell’anno tanto impegnativo (pensiamo al Natale, ad esempio). Ecco che scatta l’assunzione a tempo determinato [1]: un accordo stipulato tra datore di lavoro e lavoratore che prevede una durata massima e prefissata, al termine della quale il rapporto del lavoro si esaurisce e termina (a meno che non lo si proroghi). Ecco le caratteristiche principali di questo contratto.
Durata e proroghe
Un contratto a tempo determinato ha sempre una forma di accordo scritta (a meno che il rapporto non duri meno di 12 giorni) e la data prefissata del termine deve essere apposta per iscritto. Scaduto questo termine il contratto si chiude automaticamente.
La durata massima di questo tipo di contratto subordinato è di 36 mesi, nell’arco dei quali ci possono essere fino a un massimo di 5 proroghe. Se il numero di proroghe supera le 5, allora il contratto si trasforma in indeterminato.
Diritto di precedenza
Siamo di fronte a un importante principio che tutela il dipendente in caso di nuove assunzioni e che risponde alla domanda: perché se vuoi implementare il tuo organico non assumi già il dipendente che attualmente lavora con te a termine?
La legge risponde così: il dipendente che sia assunto con un tempo determinato da più di 6 mesi ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato (a parità di mansioni previste dal contratto) che l’azienda effettua nei 12 mesi successivi alla scadenza del termine. Così come il lavoratore stagionale assunto a termine ha la precedenza nelle nuovi assunzioni a termine con le stesse mansioni.
Licenziamento
Ci addentriamo nel delicato tema dei licenziamenti. Innanzitutto, il dipendente assunto con contratto a tempo determinato non può essere licenziato prima della scadenza prevista dal contratto stesso, a meno che non lo si voglia licenziare per giusta causa: cioè lo si vuole mandare a casa per un grave comportamento assunto sul posto di lavoro, talmente grave che non può più essere consentito il normale svolgimento del rapporto di lavoro. La fiducia si considera ormai venuta a meno.
Qualora il dipendente venisse licenziato senza giusta causa ha diritto a essere risarcito dal datore di lavoro. Come? Il datore sarà condannato a pagare al dipendente licenziato tutte le retribuzioni, dal giorno del licenziamento fino alla data di scadenza del contratto.
Arriviamo al dunque. E se invece fossimo noi a volerci licenziare?
Contratto a tempo determinato: come licenziarsi
Ecco, qui la questione si fa delicata. I contratti a tempo determinato prevedono clausole molto stringenti nel caso di dimissioni spontanee. Non sono previsti infatti né preavviso né recesso anticipato. Il motivo è presto detto e riguarda la natura stessa del contratto: essendo un delimitato periodo di tempo entro cui si viene assunti per svolgere determinate mansioni, e questo tempo può essere anche molto ridotto, il termine di chiusura contratto è già stato stabilito.
Detto ciò, chi si vuole comunque licenziare senza incappare in penalità e obblighi di risarcimenti, sappia che può farlo soltanto attraverso due strade: il recesso nel periodo di prova e il recesso per giusta causa.
- Dimettersi nel periodo di prova per comune volontà
Il periodo di prova quando si inizia un nuovo lavoro serve al datore di lavoro e al dipendente per conoscersi meglio, fare degli esperimenti e capire se si può lavorare insieme. Qualora in questo lasso di tempo le cose non vadano bene è possibile recedere dal contratto di comune accordo, senza essere obbligati a dare preavviso o a corrispondere alcuna indennità. Si è liberi di tornarsene ognuno alla propria vita e amici come prima. Scaduto questo periodo di prova però, si è un po’ più imbrigliati negli obblighi del contratto.
- Dimettersi per giusta causa
La seconda possibilità per interrompere un rapporto di lavoro a tempo determinato è presentare una lettera di dimissioni per giusta causa. In questo caso però deve verificarsi una fatto gravissimo nel rapporto di lavoro che ormai ha minato il rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro, compromettendone in modo irrevocabile la prosecuzione. Certo, non è un bel modo per chiudere il rapporto di lavoro (da entrambe le parti).
Ci sono tuttavia altre due situazioni che possono verificarsi: le dimissioni senza giusta causa (con tanto di risarcimento dovuto al datore) e le dimissioni per comune volontà delle parti.
- Dimettersi senza giusta causa
Questa strada vi mette nei guai perché prevede un risarcimento dovuto al vostro datore di lavoro. La legge cioè non ammette il diritto per il lavoratore di dimettersi senza una giusta causa in questo tipo di contratti. Se lui comunque va dritto per la sua strada, dovrà risarcire il suo datore di lavoro per il danno arrecatogli (così come dovrà essere il datore di lavoro a risarcire il dipendente nel caso lo mandasse a casa senza giusta causa).
La legge non specifica l’ammontare del risarcimento che il lavoratore in questo caso deve all’azienda. La clausola potrebbe essere inserita nel contratto. Inoltre la Cassazione [2]aveva ipotizzato che l’ammontare del risarcimento dovuto dal lavoratore che recede anticipatamente dal contratto senza giusta causa potesse addirittura corrispondere alle retribuzioni che egli avrebbe percepito se il contratto fosse durato quanto previsto. Non è certo un grande affare!
- Dimissioni volontarie per comune volontà delle parti
C’è poi una via che si auspica fortemente e che è possibile percorrere quando si ha di fronte un capo comprensivo e un rapporto di fiducia molto forte, tale da non voler mettere in difficoltà eccessiva un dipendente alle prese con l’opportunità della vita: lo scioglimento consensuale del vincolo contrattuale.
In questo caso, datore di lavoro e dipendente si siedono a un tavolo e si vengono incontro. Il datore ascolta e comprende le motivazioni del suo dipendente e accetta le dimissioni. La chiusura del rapporto si può risolvere quindi in modo consensuale e senza obblighi di risarcimento. L’accordo magari potrebbe prevedere dei passaggi di consegne specifici, o un periodo di tempo in cui il lavoratore si mette a disposizione del datore prima di andarsene.
note
[1] D. leg. n. 81 del 15 giugno 2015
[2] Cass. Sentenza n. 924 del 5 febbraio 1996