COSA CAMBIA PER I LICENZIAMENTI PER MOTIVI ECONOMICI

Con i commi 9 e 10 dell’art. 8, il D.L. n. 41/2021 prolunga il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo ma, per la prima volta, rispetto alla decretazione di urgenza del 2020 ed alla legge n. 178 in vigore dallo scorso 1° gennaio, ne differenzia la fine prendendo quale riferimento l’ammortizzatore sociale fruito. Per i datori di lavoro che possono godere del trattamento di CIGO la possibilità di procedere ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo scatta dal 1° luglio, mentre per gli altri che fanno, indifferentemente, ricorso all’assegno ordinario del FIS o dei Fondi di solidarietà o alla Cassa in deroga, la data viene postata in avanti al 1° novembre. Tutto questo (ritengo giusto sottolinearlo) a prescindere dal fatto che l’azienda faccia o meno ricorso all’ammortizzatore COVID-19.  Alle date sopra riportate potrà riprendere il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 7 della legge n. 604/1966 con alcune modalità diverse dal passato sulle quali mi soffermerò brevemente più avanti.

Le eccezioni (comma 11) che consentono di recedere dai singoli rapporti per giustificato motivo oggettivo prima delle date sopra indicate, restano e sono, sostanzialmente, le stesse, da ultimo previste dalla legge n. 178/2020:

a)       Cambio di appalto con la riassunzione del personale da parte del datore di lavoro subentrante nel rispetto di un obbligo di legge (ad esempio, art. 50 del codice degli appalti pubblici), di contratto collettivo (ad esempio, l’art. 4 del CCNL multiservizi) o di una clausola contenuta nel contratto di appalto. Si tratta di una condizione che, comunque, va verificata, sempre, sul campo, atteso che, sovente, si registrano criticità nei rapporti tra le aziende cedenti e quelle subentranti;

b)      Licenziamenti correlati alla cessazione definitiva dell’impresa anche conseguenti alla messa in liquidazione della società, a meno che non si realizzi una cessione totale o parziale dell’azienda: il tal caso scatta la tutela dell’art. 2112 c.c. per ogni dipendente interessato, con la conseguente illegittimità dei recessi;

c)       Accordo collettivo aziendale stipulato con le organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale (in sostanza, con le organizzazioni territoriali di categoria, ma non con le RSA o le RSU che, tuttavia, possono, a mio avviso, aggiungere la propria firma “ad abundantiam”), limitatamente ai lavoratori che aderiscono. Questi ultimi hanno diritto al trattamento di NASPI, in presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dal D.L.vo n. 22/2015, secondo le indicazioni fornite dall’INPS con la circolare n. 111/2020 (richiesta del trattamento di disoccupazione con accordo allegato e dichiarazione di adesione). Il datore di lavoro è tenuto al pagamento contributo di ingresso alla NASPI nella misura ordinaria. Nell’accordo collettivo che, a mio avviso, va siglato entro il giorno di scadenza del “blocco dei licenziamenti” pur potendo le risoluzioni dei rapporti avvenire in data successiva (e, sarebbe opportuno che, il Ministero del Lavoro, uscendo dal suo tradizionale  mutismo, fornisse qualche indicazione amministrativa scritta), le parti individuano i profili eccedentari e possono (non è un obbligo) identificare il “quantum” a titolo di incentivo all’esodo che può essere diversificato in ragione del profilo professionale, dell’anzianità e delle singole situazioni, non dimenticando anche ipotesi di pensionamento anticipato anche attraverso le procedure del contratto di espansione che, per il 2021, riguarda le imprese con un organico superiore alle 250 unità. Nell’accordo, le parti possono anche convenire che i singoli accordi di risoluzione siano sottoscritti “in sede protetta” ex art. 410 o 411 cpc, cosa che evita al lavoratore la procedura telematica di conferma della risoluzione consensuale o delle dimissioni attraverso l’iter telematico postulato dall’art. 26 del D.L.vo n. 151/2015 e dal conseguente D.M. applicativo. L’accordo collettivo può avvenire anche a seguito di procedura collettiva di personale (criterio delle risoluzioni consensuali ex art. 5 della legge n. 223/1991) che, è possibile in quanto prevista come eccezione alla regola generale:

in tale quadro, sempre come eccezione, possono essere riprese anche le procedure individuali ex lege n. 604/1966. Per completezza di informazione, ricordo che la legge non richiede, espressamente, il deposito dell’accordo, in via telematica, presso il Ministero del Lavoro ai sensi dell’art. 14 del D.L.vo n. 151/2015, né tale organo ha detto nulla in merito;

d)     Fallimento, nel caso in cui non vi sia una prosecuzione, anche parziale dell’attività, sia pure autorizzata dal giudice.

Dal 1° luglio termina la prima parte del “blocco”.

Mentre i datori di lavoro che fanno ricorso ai fini dell’emergenza COVID-19,, senza il pagamento di alcun contributo addizionale, all’assegno ordinario o ai trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga (FIS, CIG in deroga, Fondi bilaterali) continuano ad essere “bloccati” per i licenziamenti determinati da giustificato motivo oggettivo (fatte salve le eccezioni sopra menzionate) fino al 31 ottobre 2021, per gli altri che rientrano nel campo di applicazione della CIGO, sarà possibile procedere a licenziamenti individuali ex art. 3 della legge n. 604/1966, anche secondo le modalità previste dall’art. 3 del D.L.vo n. 23/2015, attivare una procedura collettiva di riduzione di personale ex articoli 4, 5 e 24 della legge n. 223/1991, esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 7 della legge n. 300/1970

La identificazione di tali aziende è semplice, in quanto è lo stesso art. 10 del D.L.vo n. 148/2015 a farlo. Esse sono le:

a)       Imprese manifatturiere, di trasporti, estrattive, di installazione di impianti, produzione e distribuzione dell’energia, acqua e gas;

b)      Cooperative di produzione e lavoro che svolgano attività lavorative similari a quelle degli operai delle imprese industriali, fatta eccezione delle cooperative ex DPR n. 602/1970, per le quali l’art. 1 del DPR non prevede la contribuzione per la CIG;

c)       Imprese dell’industri boschiva, forestale e del tabacco;

d)      Cooperative agricole, zootecniche e dei loro consorzi che esercitano attività di trasformazione, manipolazione e commercializzazione di prodotti agricoli propri per i soli dipendenti con contratto a tempo indeterminato;

e)       Imprese addette al noleggio e alla distribuzione dei film di sviluppo e stampa di pellicole cinematografiche;

f)       Imprese industriali per la frangitura delle olive per conto terzi;

g)      Imprese produttrici di calcestruzzo preconfezionato;

h)      Imprese addette agli impianti telefonici ed elettrici;

i)        Imprese addette all’armamento ferroviario;

j)        Imprese industriali degli Enti pubblici, salvo il caso in cui il capitale sia interamente di proprietà pubblica;

k)      Imprese industriali ed artigiane dell’edilizia e affini;

l)        Imprese industriali esercenti l’attività di escavazione e/o escavazione di materiale lapideo;

m)    Imprese artigiane che svolgono attività di escavazione e di lavorazione di materiali lapidei, con esclusione di quelle che svolgono tale attività di lavorazione in laboratori con strutture e organizzazione distinte dalle attività di escavazione.

Ma perché l’Esecutivo ha fatto questa differenziazione tra le aziende che fruiscono o che hanno fruito degli ammortizzatori COVID?

Per le aziende che rientrano nel campo di applicazione della CIGO (che, in generale, sono più strutturate delle altre e che, magari, hanno all’interno rappresentanze sindacali) la data del 1° luglio non rappresenta, necessariamente, quella del “via” ai recessi per giustificato motivo oggettivo, atteso che, a fronte di una situazione di crisi ancora presente, potrebbero essere attivati, venendo meno le integrazioni salariali COVID19, ammortizzatori sociali, ordinari o straordinari, secondo le previsioni del D.L.vo n. 148/2015 che, però, è bene rimarcarlo, non sono a “costo zero” come gli ammortizzatori correlati al coronavirus, essendo previsto un contributo addizionale nella misura individuata dall’art. 5. La questione dei licenziamenti si presenta, indubbiamente, anche in queste imprese che, magari, debbono procedere a ristrutturazioni ma qui, ripeto, le soluzioni, anche alternative ai recessi, possono essere diverse e, in un certi senso, si tratta di strade già percorse, in passato, da molti imprenditori.

Piuttosto, c’è una questione non secondaria legata a quelle aziende che, nella loro unicità, presentano un doppio inquadramento: mi riferisco, ad esempio, a quelle imprese del settore tessile (ma non solo) che sono destinatarie della CIGO per il settore produzione e della Cassa in deroga per la rete “mono marca” dei negozi. Dal 1° luglio non sarà possibile attivare una procedura collettiva di riduzione di personale per tutte le unità produttive, atteso che per la rete dei negozi, essendo previsto il trattamento di integrazione salariale in deroga, ciò sarà possibile dal 1° novembre.  Una apertura parziale della procedura, finalizzata ad una ristrutturazione limitata al solo personale della produzione, potrebbe creare, soprattutto  in mancanza di accordo sindacale, problemi correlati ai criteri di scelta, soprattutto in presenza di mansioni ripetitive ed elementari che potrebbero essere fatti valere in giudizio.

Dal 1° luglio riprenderà per tali aziende la possibilità, in caso di licenziamento economico di un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 (ma il datore deve essere dimensionato oltre le quindici unità) di esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 7 della legge n. 604/1966 avanti alla commissione provinciale di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del Lavoro. Su questo punto ritengo necessario chiarire (senza entrare nel merito della procedura, cosa che mi porterebbe lontano dall’ambito di questa riflessione) alcune cose:

a)       Sarebbe opportuno che l’azienda che intenda attivare la procedura, nel periodo compreso tra il 1° luglio ed il 31 ottobre, il tentativo obbligatorio di conciliazione, producesse nella nota di richiesta, una autocertificazione con la quale si dichiara di rientrare nel campo di applicazione della CIGO ex art. 10 del D.L.vo n. 148/2015;

b)      La procedura conciliativa, causa COVID-19, potrebbe essere “da remoto”, ai sensi del comma 2 dell’art. 12-bis della legge n. 126/2020, del Decreto Direttoriale del “Capo” dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e della circolare n. 4 del 25 settembre 2020, cosa che potrebbe portare ad un rallentamento dei tempi, cosa non propriamente in linea con quanto voluto dal Legislatore del 2012 con le legge n. 92 con la quale fu “corretto” l’art. 7 della legge n. 604/1966.

Completamente diverso è, per il momento, il discorso per i datori di lavoro che non possono attivare l’ammortizzatore CIGO. Qui, nella maggior parte dei casi, si è in presenza di  aziende con pochissimi lavoratori dipendenti, che usufruiscono dell’assegno ordinario o della CIG in deroga, che appartengono a settori, come i pubblici esercizi, il commercio, il turismo, le agenzie di viaggio, lo spettacolo, ed i servizi, in generale, particolarmente colpiti dalla crisi pandemica e che sono stati (e sono) oggetto delle chiusure e dei restringimenti dell’attività attraverso vari provvedimenti amministrativi, mentre altri settori soprattutto industriali, e della grande e piccola distribuzione hanno, pur tra numerose difficoltà, continuato a lavorare. Per questi datori di lavoro (mi riferisco, in particolar modo, quelli che occupano meno di sei lavoratori) se non fruiscono di integrazioni COVID-19 non hanno altro e, di conseguenza, la decisione del Governo di bloccare i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo fino al 31 ottobre 2021 (periodo che può essere “coperto” dall’ammortizzatore, previsto, soltanto per assegno ordinario e CIG in deroga, per 28 settimane a partire dal 1° aprile), appare coerente con la tutela del posto di lavoro la quale ha rappresentato, sempre, l’obiettivo primario (il primo “stop” è datato 17 marzo 2020). Tra qualche mese, dovrebbe essere stata definita la riforma delle integrazioni salariali che dovrebbe avere un contenuto universalistico: ovviamente, se la crisi  sarà passata (o si sarà, di molto, attenuata) con la ripresa progressiva delle attività, anche i recessi dovrebbero essere oltremodo ridotti.

Detto questo, però, non è male, per completezza di informazioni, elencare i provvedimenti di licenziamento che restano fuori dal “blocco” in quanto non ascrivibili al giustificato motivo oggettivo (e, ovviamente, non si deve trattare di un recesso per tale motivazione “mascherato”). Essi sono:

a)       I licenziamenti per giusta causa con garanzia delle procedure  previste dall’art. 7 della legge n. 300/1970: (contestazione scritta e diritto a difesa del lavoratore) secondo le indicazioni espresse dalla Consulta con la sentenza n. 204 del 30 novembre 1982;

b)      I licenziamenti per giustificato motivo soggettivo, ivi compresi quelli di natura disciplinare, anch’essi soggetti alle tutele garantiste indicate dall’art. 7 della legge n. 300/1970;

c)       I licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia, poichè  per la prosecuzione fino ai settanta anni occorre un accordo tra le parti atteso che il diritto alla prosecuzione non è un diritto potestativo del lavoratore: tale principio è espresso, con chiarezza, nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 17589 del 4 settembre 2015;

d)      I licenziamenti determinati dal superamento del periodo di comporto ex art. 2110 c.c., in quanto la procedura è “assimilabile” al giustificato motivo oggettivo ma non è giustificato motivo oggettivo ed è esclusa anche dal tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 7 della legge n. 604/1966;

e)       I licenziamenti durante o al termine del periodo di prova sottoscritto dalle parti prima della costituzione del rapporto, con l’indicazione puntuale sia della durata che delle mansioni specifiche da svolgere;

f)       I licenziamenti dei dirigenti sulla base della c.d. “giustificatezza”, frutto della elaborazione della contrattazione collettiva: si tratta di un criterio di valutazione più forte rispetto al giustificato motivo oggettivo che si applica agli altri lavoratori subordinati.  Da tale indirizzo si è discostato, da ultimo, il Tribunale di Roma con la sentenza del 26 febbraio 2021, laddove ha affermato che la “ratio” del divieto di licenziamento è quella di evitare che le conseguenze della pandemia si riverberino su tutti i rapporti di lavoro e, quindi, con una lettura “costituzionalmente orientata”, ha esteso la disposizione che fa riferimento all’art. 3 della legge n. 604/1966 (che parla di operai, impiegati e quadri) anche ad un dirigente licenziato per motivi economici;

g)      I licenziamenti dei lavoratori domestici che sono “ad nutum”;

h)      I licenziamenti dei lavoratori dello spettacolo a tempo indeterminato (cosa rara), laddove nel contratto di scrittura artistica sia prevista la c.d. “clausola di protesta”, cosa che consente la risoluzione del rapporto allorquando il lavoratore sia ritenuto non idoneo alla parte;

i)       La risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo a seguito di recesso ex art. 2118 c.c.: qui, non appare ravvisabile il giustificato motivo oggettivo. Ovviamente, occorre tener presente quanto affermato dall’art. 2, comma 4, del D.L.vo n. 148/2015 in base al quale il periodo formativo dell’apprendistato professionalizzante è prorogato per un periodo uguale a quello in cui il giovane ha fruito della integrazione salariale.  E’ appena il caso di sottolineare che, il recesso datoriale in costanza di rapporto di apprendistato (ossia, durante e non al termine del periodo) può  rientrare nel blocco dei licenziamenti laddove la motivazione sia riferibile al giustificato motivo oggettivo.

Resta, poi, la questione correlata al licenziamento per inidoneità psico-fisica che, secondo un indirizzo giurisprudenziale prevalente, alla luce delle specifiche disposizioni contenute nell’art. 42 del D.L.vo n. 81/2008 o all’interno della legge n. 68/1999 (articoli 4 e 10) è riconducibile al giustificato motivo oggettivo e quindi, come tale, è compresa nel “blocco”: su tale linea interpretativa si è espresso, di recente, anche l’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Per completezza di informazione, oltre alla ipotesi sopra evidenziata va sottolineato come rientrino tra i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, frutto di una elaborazione giurisprudenziale, anche quelli che riguardano casistiche particolari, determinati da provvedimenti di natura amministrativa come, ad esempio, il recesso che colpisce un autista al quale è stata ritirata la patente o la guardia giurata alla quale è stato tolto il porto d’armi

Bologna, 12 aprile 2021

Eufranio MASSI


7 Maggio 2021


Fonte : Dottrina Lavoro