Contratti a tempo determinato : esclusioni dal computo e non applicazione della normativa [E.Massi]

I datori di lavoro che ricorrono, frequentemente, alla stipula di contratti a tempo determinato sono, sovente, alle prese, con il rispetto dei limiti percentuali previsti dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dalla legge la quale, come regola generale, li attesta sulla percentuale del 20% rispetto all’organico dei dipendenti in forza a tempo indeterminato alla data del 1° gennaio dell’anno al quale si riferisce l’assunzione.
Ebbene, la normativa di riferimento prevede (art. 23, commi 2 e 3 del D.L.vo n. 81/2015) alcune ipotesi nelle quali vi è una esclusione completa dai limiti legali e da quelli contrattuali ed altre (art. 29, commi 1 e 2) ove sussiste una esclusione completa dal campo di applicazione della normativa specifica.

L’analisi che segue, quindi, partirà dalla casistica individuata dall’art. 23, sottolineando, comunque, che, tutte le altre disposizioni previste dal D.L.vo n. 81/2015 vanno rispettate (limite massimo, proroghe – con eccezione per le start-up innovative-, diritti di precedenza, “stacco” tra un rapporto a termine e l’altro, fatte salve le eventuali eccezioni previste dalla contrattazione collettiva, ecc.): in particolar modo tra queste spicca l’art. 20 in materia di divieti alla stipula, atteso che la violazione comporta la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.

Questa è la casistica ipotizzata dal Legislatore:

  • sostituzione di lavoratori in sciopero: si tratta di una motivazione che il Legislatore ha richiamato anche per il contratto intermittente e per quello di somministrazione. Tale ipotesi si verifica tutte le volte in cui si registra una stretta e diretta correlazione tra l’evento sciopero e l’assunzione a temine;
  • assunzione presso unità produttive (qui vale, a mio avviso, il concetto espresso dall’INPS con la circolare n. 9/2017) ove, nei sei mesi antecedenti, si è proceduto a licenziamenti collettivi, nel rispetto della procedura fissata dalla legge n. 223/1991 che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni alle quali si riferisce il contratto a termine (qui, sempre a mio avviso, vale il principio della c.d. “mobilità in orizzontale” nel livello introdotta dal nuovo art. 2103 c.c.). La disposizione fa salva l’ipotesi della sostituzione di lavoratori assenti (malattia, infortunio, ferie, maternità) o il contratto con una durata iniziale non superiore a tre mesi. Per la verità la stessa norma include anche, come eccezione, quella  finalizzata all’assunzione a tempo determinato di lavoratori iscritti nelle liste di mobilità che, ormai, sono pochissimi in quanto le liste sono state abrogate con il 1° gennaio 2017. Così come è scritto il divieto non sembra applicarsi alla ipotesi del licenziamento del singolo lavoratore o al licenziamento plurimo, atteso che si fa, esclusivamente, riferimento, alla procedura prevista dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991;
  • assunzione presso unità produttive ove sono in corso sospensioni o riduzioni di orario in regime di integrazione salariale che interessano lavoratori adibiti a mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato che si vuole stipulare. Il Legislatore intende, a mio avviso, riferirsi, non soltanto alle ipotesi di integrazione salariale straordinaria per riorganizzazione o per crisi aziendale con continuazione dell’attività, ma anche al contratto di solidarietà difensivo, alla integrazione salariale ordinaria, ai trattamenti erogati attraverso l’assegno ordinario e l’assegno di solidarietà dal Fondo di integrazione salariale o dai Fondi bilaterali di categoria ed alla CIGS del settore editoriale;
  • assunzione presso un datore di lavoro che non ha effettuato la valutazione dei rischi prevista dalle normative sulla salute e sicurezza dei lavoratori.

La violazione di tali divieti ha una conseguenza importante: i rapporti si considerano, sin dall’inizio, a tempo indeterminato, che rappresenta la forma comune del contratto di lavoro subordinato (art. 1 del D.L.vo n. 81/2015)
Ma, torniamo all’argomento di questa riflessione.

I commi 2 e 3 dell’art. 23, affermano la non computabilità assoluta nella percentuale contrattuale o legale di alcune ipotesi specifiche che riguardano:

  • i contratti a termine nelle fasi di avvio delle nuove attività per i periodi definiti dai contratti collettivi i quali possono fissarli in maniera non uniforme sia in relazione ai settori merceologici che alle aree geografiche. Qui il Legislatore ha demandato la definizione della materia complessiva alla pattuizione collettiva che è quella (art. 51) anche aziendale, espressione delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative nel settore, delle “loro” RSU o della RSA. Il CCNL del commercio, ad esempio, ne ha previsto la durata massima in 12 mesi elevabili fino a 24 per effetto della contrattazione integrativa. Per tali rapporti va, comunque, pagato il contributo addizionale mensile dell’1,40%;
  • i contratti a termine stipulati per lo svolgimento delle attività stagionali definite, come tali, dalla contrattazione collettiva (ed anche in questo caso vale il riferimento all’art. 51 del D.L.vo n. 81/2015) e dal D.M. richiamato dall’art. 21, comma 2 (che non è stato ancora emanato a distanza di tre anni dall’entrata in vigore della norma): mancando tale determinazione continua ad essere applicato il DPR n. 1525/1963 che classifica, tra le varie ipotesi, come “attività stagionali” lavorazioni ormai desuete. Per completezza di informazione va ricordato che la voce n. 48 del citato DPR definisce “stagionali” le aziende turistiche che, nell’anno solare, abbiano un periodo di inattività non inferiore a 70 giorni continuativi o a 120 non continuativi. Per tali rapporti non va pagato il contributo addizionale mensile dell’1,40%;
  • i contratti a termine per specifici spettacoli o specifici programmi radiofonici o televisivi. Tale casistica è, perfettamente, coerente con il settore ove le attività sono, sostanzialmente, a tempo determinato; Per tali rapporti va pagato il contributo addizionale dell’1,40%;
  • i contratti a termine per la sostituzione di lavoratori assenti (maternità, ferie, malattia, infortunio, ecc.). Per tali rapporti non va pagato il contributo addizionale mensile dell’1,40%. Per completezza di informazione, ricordo che i datori di lavoro che occupano meno di 20 dipendenti, in caso di assunzione di una lavoratrice in sostituzione di altra in maternità, possono usufruire di uno sgravio contributivo del 50% per un massimo di 12 mesi (art. 4, commi 3-5 del D.L.vo n. 151/2001). Tale sgravio è riconosciuto “pro-quota” anche se la lavoratrice viene sostituita da 2 unità. La concessione del beneficio contributivo prescinde dalla corrispondenza tra la qualifica della sostituta (o sostituto) e quella della sostituita, essendo possibili spostamenti interni, come ricordato dalla stessa Cassazione con la sentenza n. 3598 del 16 febbraio 2010;
  • i contratti a termine per le c.d. start-up innovative (art. 25 del D.L. n. 179/2011, convertito, con modificazioni, nella legge n. 211): per un periodo di 4 anni dalla data di costituzione è stato previsto un regime speciale, nel senso che non sussiste alcun limite percentuale legale o contrattuale, né limiti per le proroghe o nelle successioni di contratti (art. 21, comma 3). Per tali rapporti va pagato il contributo addizionale mensile dell’1,40%, a meno che non si tratti della sostituzione di lavoratori assenti;
  • i contratti a termine stipulati con lavoratori di età superiore ai 50 anni. Si tratta di una disposizione che va letta in un’ottica che tende a facilitare la ricollocazione di lavoratori espulsi dai processi produttivi o di difficile ricollocazione. Tale disposizione va letta, a mio avviso, in maniera strettamente correlata con l’art. 4, comma 8, della legge n. 92/2012, laddove, in caso di assunzione a tempo determinato di soggetti “over 50” disoccupati da almeno 12 mesi, è previsto uno sgravio contributivo sulla quota a carico del datore di lavoro pari al 50%, nel rispetto della normativa comunitaria (comma 11), dell’art. 31 del D.L.vo n. 150/2015 e dei commi 1175 e 1176 dell’art. 1, della legge n. 296/2006 (tutte queste sono norme che correlano i benefici contributivi al rispetto degli obblighi previsti dai regolamenti europei e dalla normativa nazionale);
  • i contratti a termine stipulati tra Università private, incluse quelle che sono emanazioni di Università straniere, Istituti ed Enti pubblici e privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica e tecnologica, di assistenza tecnica, di coordinamento e di direzione della stessa, e tra Istituti della Cultura di appartenenza statale ovvero Enti pubblici e privati derivanti dalla trasformazione di Enti pubblici, vigilati dal Ministero dei Beni Culturali, con eccezione delle Fondazioni di produzione musicale (D.L.vo n. 367/1996) e lavoratori destinati a soddisfare esigenze temporanee legate alla realizzazione di mostre, eventi e manifestazioni di interesse culturale. Si tratta  di attività riferibili a soggetti, a stragrande maggioranza, pubblici per attività ben determinate: anzi, sempre il comma 3, prevede, giustamente, una specifica deroga ai 36 mesi come durata massima dei contratti a tempo determinato, laddove viene specificato che allorquando i contratti a termine hanno come oggetto esclusivo lo svolgimento di una attività di ricerca scientifica la durata degli stessi è pari alla durata del progetto di ricerca. Alle Fondazioni musicali la normativa sui contratti a termine si applica parzialmente nel senso che non trovano applicazione i primi 3 commi dell’art. 19 sulla durata massima di 36 mesi e l’art., 21 che disciplina le proroghe ed i rinnovi.
    Ovviamente, la non computabilità di tali contratti nella percentuale legale o contrattuale prevista fa sì che non trovi applicazione la sanzione amministrativa dal predetto art. 23 in caso di “sforamento” del limite (20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in violazione non è superiore a 1; tale percentuale passa al 50% se il numero dei lavoratori assunti in violazione è superiore ad 1).

Passo, ora, ad esaminare quei contratti a termine che sono esclusi dalla specifica disciplina prevista in materia di contratti a termine dal D.L.vo n. 81/2015, ricordando che, quello più utilizzato in passato, il contratto a termine dei lavoratori in mobilità previsto dall’art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991) è, praticamente, scomparso per effetto della fine delle liste di mobilità, decretata dalla legge n. 92/2012 a partire dal 1° gennaio 2017.
Essi sono:

  • i rapporti di lavoro in agricoltura con gli operai agricoli a tempo determinato, definiti dall’art. 12, comma 2, del D.L.vo n. 375/1993. Qui, alle prestazioni giornaliere, trova “in toto” applicazione la disciplina del settore;
  • i richiami in servizio del personale volontario del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco. Tale disposizione, contenuta già in un precedente atto normativo, è stata riconosciuta come costituzionale dalla Consulta con la sentenza n. 267 del 13 novembre 2013;
  • i contratti a tempo determinato dei Dirigenti (tale tipologia è, nella maggior parte dei casi, quella ricorrente) per i quali viene, soltanto, stabilito un termine massimo (5 anni) con diritto del lavoratore di recedere dal rapporto, trascorso un triennio, previo periodo di preavviso ex art. 2118 c.c.;
  • i rapporti per l’esecuzione di speciali servizi (banqueting, meeting, convegni, pranzi conviviali, prenotazioni di pranzi, ecc.) di durata non superiore a 3 giorni, nel settore del turismo e dei pubblici esercizi, nei casi individuati dai contratti collettivi, fermo restando l’obbligo di comunicare l’instaurazione del rapporto entro il giorno antecedente. Dopo un periodo in cui tali rapporti, pur presenti da un trentennio nel nostro ordinamento, erano stati “eclissati” dal “boom dei voucher” (ora abrogati per effetto del D.L. n. 25/2017), si sta assistendo ad una loro ripresa nei settori interessati in quanto presentano una loro specifica valenza, soprattutto nei fine settimana caratterizzati da un incrementi delle attività e si pongono, in diretta concorrenza, con il lavoro intermittente ove occorre, nella maggior parte dei casi, ricorrere  a “voci” del R.D. n. 2657/1923, richiamato dal D.M. del 23 ottobre 2004 e con le prestazioni occasionali ex art. 54-bis della legge n. 96/2017 ove le condizioni oggettive e soggettive sono, spesso, insormontabili. Ovviamente, i datori di lavoro debbono appartenere ai settori sopra evidenziati attraverso il codice ATECO o applicare i contratti collettivi di settore stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Il ricorso a tali prestazioni, se da un lato presenta notevoli adempimenti burocratici (comunicazioni di assunzione, di cessazione, LUL, ecc.), ha il pregio di non rientrare nella casistica generale dei contratti a tempo determinato sia per la durata massima che per lo “stacco”, che per le proroghe e i diritti di precedenza;
  • i contratti a tempo determinato con il personale docente ed ATA per il conferimento di supplenze e con il personale, anche dirigente, del Servizio Sanitario Nazionale;
  • i contratti  termine stipulati ex lege n. 240/2010 (assunzione di personale accademico nelle Università).

18 Maggio 2018


Fonte : Dottrina Lavoro