Cessazione dell’attività e nullità del licenziamento intimato alla lavoratrice madre

Con sentenza 28 settembre 2017, n. 22720, la Corte di Cassazione – sezione Lavoro, ha confermato la precedente decisione della Corte d’Appello di L’Aquila con cui veniva dichiarato inefficace il licenziamento intimato nell’anno 2009 ad una lavoratrice durante lo stato di gravidanza e nel corso di una procedura di licenziamento collettivo, condannando il datore di lavoro a corrispondere alla lavoratrice l’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto ed ulteriori 5 mensilità a titolo di risarcimento del danno, oltre accessori. Nel caso de quo la Corte ha ritenuto insussistenti i presupposti per la disapplicazione del divieto di licenziamento previsti dall’art. 54 del D. Lgs. n. 151/2001, come modificato dal D. Lgs. n. 115/2003 consistenti nella cessazione dell’intera attività aziendale. La Corte afferma che la chiusura e la cessazione dell’attività del solo contact center di L’Aquila, ove la lavoratrice prestava l’attività, non integra in favore della società datrice di lavoro il presupposto della cessazione dell’attività aziendale intesa nel suo complesso.

La sentenza ribadisce un principio già affermato con sentenza n. 10391 del 18 maggio 2005 con cui la Suprema Corte forniva un’interpretazione restrittiva dell’art. 54, comma 3, lettera b), stabilendo che tale principio non è suscettibile di interpretazione estensiva ed analogica; ne consegue che affinché possa aversi inapplicabilità del divieto di licenziamento, devono ricorrere entrambe le condizioni previste dalla menzionata lettera b) ossia deve trattarsi di un’azienda e deve trattarsi di cessazione dell’intera attività.

La Suprema Corte ha precisato altresì che nel caso in esame sarebbe inammissibile anche l’adesione al diverso orientamento secondo cui la cessazione dell’attività dell’azienda, prevede l’inapplicabilità del divieto di licenziamento della lavoratrice anche qualora si tratti della soppressione di un reparto organizzato avente autonomia funzionale, poiché la lavoratrice ad esso addetta dovrebbe essere non più utilmente collocabile in un reparto diverso.

Difatti, premesso che ricade sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova dell’impossibilità di ogni altra utile collocazione della lavoratrice in altri rami dell’azienda diversi da quello la cui attività sia cessata, il datore di lavoro avrebbe dovuto fornire dimostrazione che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati ovvero che dopo il licenziamento e per un congruo lasso di tempo non abbia effettuato alcuna assunzione nella stessa qualifica.


20 Ottobre 2017


Fonte : Leggi di Lavoro