Le commissioni finalizzate alla certificazione dei contratti di lavoro stanno sempre più aumentando come numero rispetto alla originaria previsione contenuta nel decreto legislativo n. 276/2003: infatti, nel corso degli anni, accanto a quelle istituite presso le Direzioni territoriali del Lavoro (ora Ispettorati territoriali del Lavoro) si sono aggiunte, e sono pienamente operative, quelle che insistono presso le sedi degli ordini provinciali dei consulenti del lavoro e quelle delle Università e delle Fondazioni Universitarie autorizzate (con competenza, a differenza di quelle appena citate, su tutto il territorio nazionale).
Indubbiamente, la “voglia”, soprattutto dei datori di lavoro, di aver certezza circa la qualificazione dei rapporti da opporre a qualunque “terzo” ( “in primis” gli organi di vigilanza), spinge verso la certificazione che, secondo la previsione contenuta nell’art. 5 del decreto legislativo n. 276/2003 e nell’art. 2 del decreto legislativo n. 81/2015, deve avvenire a seguito di una richiesta espressa di comune accordo da ambo le parti (fanno eccezione le certificazioni per i c.d. “ambienti confinati” ove le stesse sono obbligatorie).
Come dicevo, si sta assistendo ad un incremento dei contratti certificati: ciò avviene (è sufficiente consultare i dati) presso gli organismi ove il datore di lavoro “paga” un contributo economico, mentre, laddove la certificazione avviene gratuitamente (Ispettorato territoriale del Lavoro, ove in commissione siedono soggetti qualificati come il “Capo” dell’Ispettorato ed i Direttori dell’INPS e dell’INAIL) il numero è estremamente limitato. Non occorre essere Einstein per rendersi conto della ragione di tale fenomeno.
Con la circolare n. 9 del 1 giugno 2018 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro offre una serie di indicazioni operative alle proprie articolazioni periferiche finalizzate a definire i comportamenti degli ispettori che si trovano di fronte a situazioni che richiamano la certificazione dei rapporti. Detto questo, vado con ordine ad esaminare le varie ipotesi configurate dall’INL.
Attività ispettiva con certificazione in corso
La presentazione di una istanza di certificazione relativa ad un contratto (qualunque esso sia) senza che l’iter procedimentale sia giunto a conclusione non ha alcun effetto preclusivo sull’attività dell’organo di vigilanza che può, liberamente, effettuare i propri accertamenti avendo cura di informare la commissione presso la quale è stata presentata la richiesta: si tratta di un passaggio necessario per sospendere l’iter certificatorio. Si è di fronte ad una opportuna forma di coordinamento collaborativo che è postulata dallo stesso art. 78, comma 2, del decreto legislativo n. 276/2003 laddove si sottolinea che gli organi “terzi” rispetto all’atto di certificazione possono presentare osservazioni alla commissione interessata.
Gli esiti dell’accertamento, ricorda l’Ispettorato nazionale, vanno comunicati all’organo certificatorio onde consentire allo stesso di trarre le proprie determinazioni, che potrebbero portare anche al rigetto dell’istanza se le conclusioni a cui è arrivato l’ispettore vanno in una direzione diversa rispetto a quella prospettata dagli interessati.
Un identico discorso che, per certi versi appare più stringente, va fatto allorquando, in corso di accertamento, il datore o il professionista che lo assiste, dichiari di aver depositato istanza di certificazione. Sull’ispettore grava l’onere di avvertire la commissione circa la visita in corso: quest’ultima ha il “dovere” di sospendere il procedimento.
Per il resto, l’organo di vigilanza è pienamente libero e non condizionato nella sua attività e, al termine, una volta adottati i provvedimenti, è tenuto a comunicare alla commissione l’esito dell’accertamento.
Impugnazione della certificazione
La circolare n. 9, senza dirlo espressamente, rappresenta una sorta di “superamento” della Direttiva del Ministro del Lavoro “pro-tempore” Sacconi che, nel settembre 2008, invitava gli ispettori del lavoro a “soprassedere” agli accertamenti sui contratti certificati a meno che non vi fossero rilievi di natura penale.
Ora, dopo aver ricordato gli effetti della certificazione (opponibilità nei confronti di terzi – INL, Istituti previdenziali, Agenzia delle Entrate, ecc. – fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili, eccezion fatta per i possibili provvedimenti cautelari del giudice), la nota detta alcune indicazioni da osservare nel verbale conclusivo, laddove siano stati rilevati vizi concernenti sia l’erronea qualificazione del contratto che la difformità tra quanto certificato e quanto attuato, che, infine, la non genuinità dell’appalto.
Nella sostanza, il verbale conclusivo con i relativi disconoscimenti e le sanzioni applicate con gli effetti conseguenti, dovrà riportare l’indicazione che l’efficacia è condizionata al positivo espletamento del tentativo di conciliazione ex art. 80 del decreto legislativo n. 276/2003 e, in caso di esito negativo, alla proposizione delle impugnazioni giudiziarie di cui parla il medesimo art. 80 ed alla successiva sentenza positiva del giudice.
A questo punto, sia pure sommariamente, la circolare n. 9 ricorda i passaggi, obbligatori, che si debbono seguire per contestare l’atto di certificazione.
Innanzitutto, va esperito il tentativo di conciliazione (il solo che è obbligatorio nel nostro ordinamento lavoristico) il quale, ai sensi dell’art. 410 cpc, sospende la prescrizione ed ogni termine di decadenza dal momento in cui è stata presentata l’istanza, per tutta la durata dello stesso e per i venti giorni successivi alla sua conclusione. Il tentativo va svolto avanti all’organo che ha certificato il contratto.
Nel caso in cui la commissione di certificazione insista presso una sede territoriale ove l’Ispettorato non esercita le proprie competenze, sarà necessario delegare formalmente, fornendo la dovuta ampia documentazione, l’Ispettorato competente.
L’esito negativo del tentativo apre la strada al ricorso giudiziale che può essere di natura amministrativa qualora si chieda al TAR di accertare una violazione di legge delle disposizioni che regolano il procedimento o un eccesso di potere: si ricorre, invece, al giudice ordinario, laddove si ravvisi una erronea qualificazione del rapporto o una difformità tra quanto riportato nel programma negoziale e quanto effettivamente accertato.
La difesa in giudizio, ricorda la nota dell’INL va fatta secondo la previsione dell’art. 21 del decreto legislativo n. 251/2014 il quale afferma, riferendosi alle vecchie Direzioni territoriali del Lavoro, che i dirigenti o i funzionari da essi delegati […] rappresentano e difendono, nell’ambito delle attività istituzionali dell’Amministrazione e senza nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato, il Ministero del Lavoro. […] nei giudizi di cui all’art. 80 del decreto legislativo n. 276/2003. Ovviamente, una soluzione positiva della controversia circa la difformità di quanto accertato rispetto al programma negoziale certificato, spiegherà i propri effetti dal momento in cui la stessa sarà stata accertata dal giudice.
La circolare n. 9 spende due parole anche sul “radicamento” del ricorso richiamando, per il giudice ordinario, i criteri alternativi previsti dall’art. 413 cpc e privilegiando quello della sede in cui insiste l’azienda, cosa che, ad esempio, nell’appalto, seguendo l’indirizzo espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 11320/2014, può essere, invece, quello di svolgimento del rapporto di lavoro.
Anche in questo caso è stata prevista la delega ad altra articolazione periferica dell’INL se il foro competente risulta ubicato in quel territorio.
La nota si conclude con un passaggio ovvio: l’esito positivo della impugnazione, previa comunicazione al soggetto ispezionato, fa sì che l’Ufficio possa far seguito ai provvedimenti già contestati con il verbale unico.
Da ultimo, una piccola riflessione su una ipotesi che potrebbe presentarsi agli ispettori durante un accesso: un contratto di appalto certificato ma che, nello svolgimento, presenti elementi di violazione richiamati dall’art. 603-bis c.p. . Si tratta della normativa sul caporalato ove è sufficiente la presenza di almeno uno di quattro indici individuati dalla norma per imporre la segnalazione alla Procura della Repubblica: tra questi, è bene ricordarlo, spicca quello legato alla reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme rispetto ai trattamenti previsti da contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, comunque, sproporzionate rispetto alla quantità o qualità del lavoro prestato.
Ovviamente, gli accertamenti disposti dalla pubblica accusa potranno “travolgere” il contratto certificato con tutte le conseguenze del caso.