Articolo: La prescrizione dei crediti da lavoro: un problema per le aziende e i consulenti

Sovente, le aziende ed i professionisti che le assistono si trovano di fronte a rivendicazioni economiche da parte dei lavoratori, soprattutto allorquando il rapporto si è concluso, ove si chiede la corresponsione di somme che risalgono a molto tempo prima: di qui, la corsa a reperire documentazione per contestare le pretese, anche perché, spesso, tali rivendicazioni sono avanzate direttamente con un ricorso al giudice del lavoro.

Spesso ci si pone la domanda sul che fare, in quanto la decorrenza della prescrizione, dopo gli interventi dell’ultimo decennio operati dal Legislatore in tema di licenziamenti con il sostanziale venir meno della tutela obbligatoria, non è più certa ed il Parlamento che, pure avrebbe potuto intervenire sulla materia, non lo ha fatto.

La questione che vado ad esaminare con questa breve riflessione riguarda non la durata della prescrizione dei crediti da lavoro (l’art. 2946 c.c. è molto chiaro sul punto), ma la decorrenza della stessa e, soprattutto, andando indietro nel tempo, da quando il lavoratore può esercitare le proprie rivendicazioni?

L’art. 2946 c.c. afferma che tutto ciò che deve essere corrisposto dal datore di lavoro, con una periodicità annuale o infra annuale, è oggetto di prescrizione entro i successivi cinque anni: ci si riferisce, ad esempio, alle retribuzioni, alle differenze retributive, alle competenze correlate alla cessazione del rapporto di lavoro, al compenso per lavoro straordinario, alle festività coincidenti con la domenica. La prescrizione decennale opera, invece, in alcune rivendicazioni residuali come quelle derivanti dal riconoscimento del premio di invenzione o, comunque, da titoli autonomi rispetto alla retribuzione stipendiale.

Fatte queste brevi premesse entro subito nel merito della questione.

Con la sentenza n. 26246, del 6 settembre 2022, la Corte di Cassazione ha fornito il proprio indirizzo rispetto alla prescrizione dei crediti del lavoratore, ove, le certezze antecedenti, almeno per quel che riguarda i dipendenti già tutelati dall’art. 18 della legge n. 300/1970, sono venute, progressivamente, meno, per effetto delle modifiche introdotte, a partire dal 18 luglio 2012, dalla legge n. 92 e, successivamente, dal D.L.vo n. 23/2015.

Nel corso di questi anni, nel silenzio del Legislatore che, pure, era stato chiamato ad intervenire da eminenti studiosi, la giurisprudenza di merito aveva prospettato decisioni tra loro contrastanti e la sentenza della Corte ha avuto, quanto meno, il pregio di fissare alcuni punti fermi.

Prima di entrare nel merito della sentenza dei giudici di Piazza Cavour è opportuno un breve “excursus” sulle decisioni della Consulta che, in passato, prima delle riforme del 2012 e del 2015, si erano occupate della materia.

In passato, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 63 del 10 giugno 1966, aveva affermato che la prescrizione non potesse decorrere in costanza di rapporto di lavoro laddove il lavoratore si trovasse in una situazione di particolare subalternità materiale e psicologica (c.d. “metus”) e dove l’eventuale esercizio del diritto avrebbe potuto portare a conseguenze gravi per lo stesso come, ad esempio, al licenziamento.

Successivamente, con due altre sentenze ma, soprattutto, con la seconda, la n. 174 del 12 dicembre 1972, la Consulta (era già in vigore la legge 20 maggio 1970 n. 300) affermava che esistevano alcuni rapporti di lavoro dotati di stabilità reale e non obbligatoria, garantita dalla reintegra (art. 18), applicabile in tutti quei casi in cui il licenziamento era affetto da vizi. In questi casi, il differimento dei termini prescrizionali non era più giustificabile e, di conseguenza, esso poteva decorrere anche in costanza di rapporto.

Lungo tale solco interpretativo si sono mosse per anni sia la dottrina che la giurisprudenza e ciò è accaduto fino al 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della legge n. 92, ma, da quel giorno, allorchè fu prevista, in diversi casi, l’erogazione di una indennità risarcitoria al posto della reintegra in caso di licenziamento illegittimo, la stabilità del lavoro come criterio identificativo ai fini della decorrenza della prescrizione, è venuta meno.

La mancanza della tutela “reale” si è ampliata ancora di più a partire dal 7 marzo 2015 con il D.L.vo n. 23/2015 ove l’art. 3 ha previsto l’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo per giusta causa, giustificato motivo oggettivo e soggettivo, relegando la reintegra nel posto di lavoro, sostanzialmente, alle ipotesi del licenziamento disciplinare con motivazione insussistente, e nei casi gravi previsti dall’art. 2 (recesso in violazione di norme di legge, licenziamento discriminatorio o ritorsivo, licenziamento di portatore di handicap con difetto di giustificazione). L’argomento relativo ai termini prescrizionali per le rivendicazioni economiche non fu, allora, affatto toccato dal Legislatore delegato.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 194 dell’8 novembre 2018, non ha toccato il principio risarcitorio, ma ne ha dato una interpretazione diversa sostenendo che nella determinazione della indennità il giudice può non attenersi al solo criterio dell’anzianità ma, motivandolo, lo può integrare, ai fini della determinazione delle mensilità riconosciute, con altri criteri desumibili anche dall’art. 8 della legge n. 604/1966.

Ma, cosa ha detto la Cassazione?

Essa ha il merito di aver fatto un minimo di chiarezza, lungo la strada indicata, a suo tempo, dalla sentenza della Consulta n. 174/1972, affermando che “il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del D.L.vo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità”.

La reintegra, quindi, pur in un quadro operativo ove sia la Cassazione che la Corte Costituzionale, negli ultimi tempi, sembrano allargare le vie per la ricostituzione del rapporto di lavoro, ha assunto una caratteristica recessiva, cosa che comporta una forte dilatazione dei termini prescrizionali per la rivendicazione di competenze economiche che si ritengono maturate e non corrisposte.

Ma, concretamente, cosa consegue da tale principio?

Nei rapporti di lavoro tuttora in essere alla data odierna, sono prescritti soltanto gli eventuali crediti maturati prima del 18 luglio 2007 (cinque anni prima dell’entrata in vigore della legge n. 92) e quelli, eventuali (coperti dalla prescrizione decennale) antecedenti il 18 luglio 2007. Ovviamente, le nuove modalità di calcolo del regime prescrizionale non si applicano, solo, a chi è, ancora, dipendente ma anche a chi ha cessato il proprio rapporto nell’ultimo quinquennio, tenendo conto, per il calcolo a ritroso, della data di cessazione del contratto.

Tutto questo, in prospettiva, potrebbe portare a controversie per crediti lontani nel tempo (quantomeno dal luglio 2007) con i dipendenti in forza, in situazioni ove, il datore potrebbe avere difficoltà a trovare prove ed elementi necessari per una eventuale difesa in sede giudiziale, avendo ben presente che la prescrizione non decorrerà fino alla cessazione del contratto di lavoro e che maturerà nel quinquennio successivo.

Di qui, a mio avviso, la necessità per le aziende e per i professionisti che le assistono, di conservare nel tempo la documentazione e di monitorare, costantemente, la regolarità dei rapporti in essere.

Dicevo, pocanzi, come quello della prescrizione dei crediti da lavoro sia un tema che meriterebbe una riflessione da parte del Parlamento, finalizzata a porre chiarezza su questioni che, talora, possono generare effetti negativi sulle imprese.

Eufranio MASSI


9 Ottobre 2023


Fonte : Dottrina Lavoro