Non è raro, anche nelle piccole e medie aziende, il caso ove l’amministratore della società o il presidente della stessa abbiano, contemporaneamente, con la medesima impresa un rapporto di lavoro subordinato e non è, parimenti, raro il caso che nascano contenziosi con l’INPS e con l’Agenzia delle Entrate circa la veridicità di quest’ultimo.
Ritengo, perciò, opportuno soffermarmi su questo argomento partendo sia dalle decisioni della Corte di Cassazione che dagli orientamenti amministrativi espressi, a più riprese, dall’Istituto.
Ma, andiamo con ordine.
Sin dalla metà degli anni novanta le Sezioni Unite della Cassazione hanno dettato alcuni principi finalizzati a rendere plausibile la coesistenza tra le c.d. “figure apicali” che rappresentano la volontà delle aziende e la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato (Cass. S.U. n. 10680/1994).
Alla fine dello scorso anno la Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso dell’Agenzia delle Entrate (Cass. 36362/2021) ha disposto il recupero alla ordinaria tassazione delle spese che la società aveva sostenuto per alcuni soci amministratori che avevano, in contemporanea, un rapporto di lavoro subordinato, affermando che sussiste una incompatibilità assoluta tra le figure di presidente e di amministratore unico, poiché nelle stesse persone non si possono cumulare i poteri di rappresentanza, di direzione e di controllo, la cui sussistenza, documentalmente verificata, esclude la possibilità della subordinazione.
Ma, allora, cosa è possibile fare?
La Corte, nelle numerose sentenze che si sono succedute negli anni (v. anche Cass. n. 9723/2019), ha affermato che le due posizioni possono convivere a condizione che chi intende far valere il rapporto di lavoro subordinato, dal quale discendono anche effetti di natura previdenziale, debba fornire la prova del vincolo di subordinazione. Si tratta, in verità, di un passaggio molto stretto ma che comunque sussiste, laddove si dimostri, ad esempio, che l’amministratore è soltanto uno dei componenti del consiglio, che le delibere sono adottate da un organo collegiale e, soprattutto che la prova delle subordinazione sia, veramente, rigorosa, avuto riguardo alle le mansioni svolte ed alla sussistenza degli elementi tipici del contratto di lavoro, sottoscritto ai sensi del CCNL applicato (quello dei Dirigenti o, come accade nelle piccole realtà, quello del CCNL applicato in azienda, magari con riferimento alla figura del quadro).
Con il messaggio n. 3359/2019 l’INPS riassume la posizione dell’Istituto partendo dalla circolare n. 179/1989 che, peraltro, come detto chiaramente, risulta ampiamente superata dalle determinazioni addotte dalla Giurisprudenza di legittimità negli anni successivi. In particolare si ricorda che:
- La carica di presidente, di per se stessa, non è, in assoluto, incompatibile con lo status di lavoratore subordinato, in quanto lo stesso, al pari di qualsiasi membro del consiglio di amministrazione, può essere soggetto al controllo dell’organo collegiale ed alle sue direttive (Cass. n. 11978/2004 e n. 18414/2013). Il potere di rappresentanza, di per sé non è decisivo per la esclusione del rapporto di lavoro subordinato, in quanto la delega non estende automaticamente i diversi poteri deliberativi;
- Diverso è il discorso concernente l’amministratore unico il quale, proprio per la sua posizione, esprime sempre la volontà dell’azienda o dell’Ente ed è titolare dei poteri di controllo, comando e disciplina: qui non ci può essere alcuna compatibilità tra l’essere amministratore unico e lavoratore dipendente della medesima società (Cass., 24188/2006);
- Per l’amministratore delegato occorre verificare l’ampiezza della delega conferita dal consiglio di amministrazione, se generale (con gestione globale della società) o parziale (limitatamente ad alcuni atti di gestione): qui la valutazione con l’eventuale rapporto di lavoro subordinato, in caso di delega parziale, va effettuata con riferimento alla situazione concreta, mentre nell’ipotesi di delega generale non è ammissibile il rapporto di lavoro dipendente;
- Per il socio unico il rapporto di lavoro subordinato è, senz’altro, da escludere atteso che nelle proprie mani è concentrata la proprietà, nonostante l’esistenza della società come distinto soggetto giuridico. Infatti, ricorda la Cassazione (Cass., n. 21759/2004) il socio che abbia la esclusiva titolarità dei poteri di gestione non può rivestire, contemporaneamente, la figura di lavoratore subordinato, non essendoci la possibilità di “ricollegare ad una volontà sociale la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro”.
Chi intende far valere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato nei casi in cui lo stesso sia, astrattamente, cumulabile, con quello di amministratore, socio o presidente, ha l’obbligo di fornire la prova che il proprio vincolo, nonostante la carica sociale rivestita, è sottoposto al potere ed al controllo dell’organo di amministrazione societario. Ovviamente, per acclarare la sussistenza del vincolo di subordinazione, occorrerà valutare una serie di elementi tipici della stessa come, ad esempio:
- La periodicità e la determinatezza della retribuzione;
- L‘impegno lavorativo con uno sguardo, se possibile, all’orario contrattuale, se previsto
- L’assenza di rischio in capo al lavoratore
- L’assenza di una organizzazione imprenditoriale;
- La distinzione tra le somme corrisposte a titolo di retribuzione e quelle provenienti dai proventi di natura societaria (Cass. n. 5886/2012);
- La gestione del rapporto come subordinato, desumibile dalla fruizione delle ferie, dalla gestione degli stati di morbilità, dei permessi, ecc.;
- L’assunzione con la qualifica di dirigente (se il rapporto è di qualifica dirigenziale) con il conferimento dell’incarico da parte dell’organo amministrativo ed il conseguente assoggettamento al potere direttivo, pur se lo stesso, avvenga in maniera attenuata o lieve, la caratterizzazione delle mansioni che sono diverse da quelle proprie della carica rivestita.
Nel caso in cui non sussista alcuna formalizzazione di incarico dirigenziale e “risulti l’esercizio diretto della gestione della società in ragione della immedesimazione organica, ricorda la Cassazione con la sentenza n, 18414/2013),” è necessario, ai fini della distinzione dei due ruoli, distinguere un qualcosa di più da “scovare” nella specifica caratterizzazione delle mansioni svolte, sia pure in un contesto ove la discrezionalità ed i poteri di iniziativa sono molto ampi.
Nella sostanza, a conclusione di questa breve riflessione si può affermare che la coesistenza tra i due ruoli sia possibile a meno che il presidente, l’amministratore o il socio non sia “dipendente di se stesso”.