Accordo collettivo sindacale di deroga alla riduzione di personale: vantaggi e criticità [E.Massi]

Analisi approfondita degli accordi sindacali volti a salvaguardare i posti di lavoro in un momento in cui il governo attua la c.d. “decretazione di urgenza”.

È indubbio che nelle proroghe che hanno accompagnato, durante la crisi pandemica, il blocco del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, si sia registrato un forte ascolto da parte del Governo delle istanze sindacali: nulla di strano, atteso che il COVID-19 ha comportato (e comporta, tuttora) la necessità di salvaguardare i posti di lavoro. Del resto, che un certo coinvolgimento delle organizzazioni dei lavoratori sia stata un po’ la “costante” che ha accompagnato la c.d. “decretazione di urgenza”, lo si rileva anche dal fatto che, pur nella precarietà delle comunicazioni, i sindacati sono stati coinvolti con esami congiunti ma anche con accordi (come nella cassa in deroga nelle aziende con oltre cinque dipendenti) nella gestione di questi ammortizzatori sociali “speciali”. Di conseguenza, ben si comprende come in un momento in cui, accanto alla conferma del “blocco” dei recessi per giustificato motivo oggettivo, vengono ipotizzate situazioni in cui lo “stop” può venir meno, venga previsto un accordo aziendale sottoscritto dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Ma, di cosa si tratta?
Secondo il comma 3 dell’art. 14 del D.L. n. 104/2020, la sospensione non si applica in presenza di “accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all’art. 1 del D.L. vo n. 22/2015”.

Prima di entrare nel merito del contenuto ritengo opportuno fare alcune precisazioni.
La norma non ha una portata strutturale in quanto appare limitata alla situazione emergenziale legata alla possibilità di derogare allo “stop” ai licenziamenti imposto fino al prossimo 31 dicembre: di qui anche il riconoscimento della NASPI che in una situazione di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro appare una eccezione (un caso analogo lo abbiamo nella risoluzione consensuale ex art. 7 della legge n. 604/1966 al termine dell’iter procedimentale avanti alla commissione di conciliazione istituita presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro o nella conciliazione facoltativa su un licenziamento ex art. 6, comma 1, del D.L.vo n. 23/2015).

La norma affida la possibilità di accordo alle organizzazioni sindacali (ne occorrono almeno due, atteso che la disposizione si esprime al plurale) comparativamente più rappresentative a livello nazionale, con esclusione (salvo modifiche in sede di conversione) delle RSU e delle RSA: l’eventuale accordo va sottoscritto dalle organizzazioni di categoria a livello territoriale.
La norma  sembra essere stata, parzialmente copiata (ma non è, assolutamente, un demerito) dall’art. 24-bis del D.L.vo n. 148/2015 ove viene affrontata la questione dei lavoratori eccedentari e che ha avuto, finora, scarsi risultati, soprattutto, per il mancato decollo delle politiche attive del lavoro: infatti,  come in quel caso, si parla di accordi collettivi ove le parti al termine di un periodo di integrazione salariale straordinaria concordano nella constatazione che non è possibile far rientrare nel posto di lavoro tutti i dipendenti e, senza fare nomi, individuano i profili eccedentari. I lavoratori che, fatte le loro considerazioni, intendono aderire al percorso di ricollocazione, danno il proprio assenso scritto entro un mese e se la ricollocazione avviene in maniera positiva vengono a fruire, tra le altre cose, dell’esenzione dall’IRPEF sugli importi di incentivo all’esodo fino ad un massimo di nove mensilità. Nel nostro caso, (è bene sottolinearlo, da subito) non c’è nessun sgravio IRPEF.

Accordi di tal genere li abbiamo anche nei c.d. “licenziamenti non oppositivi” richiamati dall’art. 4, comma 4, del D.M. n. 94033/2016 e legati ai contratti di solidarietà difensivi, nelle risoluzioni ex art. 41, comma 5, del D.L.vo n. 148/2015 per i c.d. “contratti di espansione” ma anche nella c.d. “isopensione” (art. 4, commi da 1 a 7-ter della legge n. 92/2012).
Entro, quindi, nel merito della disposizione che, a mio avviso, ha una portata ampia, rivolgendosi, indistintamente, a tutti i datori di lavoro, ben sapendo, però, che con più facilità saranno quelli più strutturati a valersene. Non si parla mai di licenziamenti ma di “incentivo all’esodo”: di conseguenza, l’accordo aziendale dovrà, a mio avviso, stabilire sia il “quantum” (magari correlato al profilo professionale ed all’anzianità aziendale) che i tempi di adesione da parte di ogni singolo lavoratore.

Qui si pone, a mio avviso, una questione: l’accordo aziendale va depositato telematicamente al Ministero del Lavoro entro trenta giorni dalla sottoscrizione secondo la previsione contenuta nell’art. 14 del D.L.vo n. 151/2015?

Ricordo come la predetta norma stabilisca che “i benefici contributivi o fiscali e le altre agevolazioni connesse con la stipula di contratti aziendali o territoriali sono riconosciuti” previo deposito presso il Dicastero che le mette a disposizione, con le medesime modalità, delle altre Amministrazioni ed Enti Pubblici interessati. Orbene,  benefici contributivi e fiscali non ci sono, mentre, a mio avviso, ci sono le “altre agevolazioni” che scaturiscono dal fatto che, solo in virtù della stipula di accordi collettivi aziendali che presentano tali caratteristiche (mi riferisco anche alla legittimazione alla stipula riconosciuta soltanto ad alcune sigle sindacali), è possibile per i lavoratori interessati fruire dell’indennità di disoccupazione in caso di risoluzione consensuale, altrimenti non dovuta. A mio avviso, il deposito dovrebbe essere previsto, anche per controllare, a campione, se le risoluzioni consensuali “portatrici di NASPI” sono frutto di accordi collettivi legittimi. Ovviamente, appare auspicabile un intervento chiarificatore del Ministero del Lavoro, possibilmente con nota firmata e non con FAQ o slide che, anonime, non hanno alcuna efficacia di interpretazione amministrativa.

Tornando al merito delle questioni ritengo che il datore di lavoro debba tenere anche conto che (pur se occorrerà attendere, su questo punto, la circolare esplicativa dell’INPS) dovrà pagare il contributo di ingresso alla NASPI che per un dipendente con un’anzianità pari o superiore a 36 mesi arriva, nel 2020, a 1.509,87 euro, pur se il rapporto a tempo indeterminato si è svolto in modalità di part-time.
La disposizione parla soltanto di adesione (neanche scritta) dei lavoratori all’accordo collettivo e nulla dice circa la possibilità “trasmigrare” i contenuti in un accordi individuali da sottoscrivere in “sede protetta” ex artt. 410 o 411 cpc: ritengo che questa sia una strada che i datori di lavoro vorranno percorrere anche per chiudere una serie di questioni che afferiscono l’intercorso rapporto e che, prima della sottoscrizione, ogni singolo lavoratore dovrà verificare in ogni sua parte, anche con l’ausilio sindacale. La via dell’accordo individuale in “sede protetta” si fa preferire anche per un altro aspetto che appare secondario: la sottoscrizione avanti a tali organi consente al lavoratore di “by-passare” la procedura telematica di conferma delle dimissioni o della risoluzione consensuale richiesta dall’art. 26 del D.L. vo n. 151/2015 e dal successivo D.M. applicativo del Ministro del Lavoro.

Come ho avuto modo di sottolineare non si parla di licenziamenti: ciò significa che, nelle imprese con un organico superiore alle quindici unità, non è possibile aprire una procedura collettiva di riduzione di personale, perché la norma non lo consente: tuttavia, con le risoluzioni consensuale (che non sono recessi) si potrà andare ben oltre le cinque unità in 120 giorni.

Detto questo, però, per un datore di lavoro si apre un’altra questione: quella del collocamento obbligatorio. Come è noto, l’art. 3, comma 5, della legge n. 68/1999 sospende gli obblighi occupazionali per tutto il periodo (quindi, per un massimo di 75 giorni) in cui la trattativa segue il suo iter nelle sedi sindacali ed amministrative e, qualora, si registrino almeno cinque licenziamenti, fino a quando l’ultimo lavoratore licenziato ha un diritto di precedenza (sei mesi, secondo la previsione del comma 6 dell’art. 15 della legge n. 264/1949): nelle aziende che hanno una articolazione su più territori lo “stop” al collocamento dei disabili si registra in tutte le unità produttive.
Ora è chiaro che non essendoci una apertura della procedura, non consentita dall’art. 14 del D.L. n. 104/2020, non è possibile “per analogia” estendere tale previsione al nuovo istituto di risoluzione incentivata dei rapporti. Di conseguenza, a mio avviso, le vie possibili sono due:

  • La prima passa per un intervento normativo, in sede di conversione, che allarghi l’ipotesi della sospensione temporanea degli obblighi occupazionali anche alla fattispecie indicata dal comma 3 dell’art. 14. La durata della stessa, non essendoci un diritto di precedenza, perché i rapporti si sono risolti consensualmente, dovrebbe essere lasciata alle valutazioni del Legislatore;
  • La seconda richiede apposite convenzioni ex art. 11 della legge n. 68/1999 con il servizio disabili delle varie realtà territoriali per un differimento temporale e scadenzato degli obblighi occupazionali: in tali sedi il datore di lavoro dovrebbe esplicitare le condizioni particolari in cui vene a trovarsi anche alla luce del fatto che di recente, la Cassazione, con sentenza n. 15401 del 20 luglio 2020, ha fatto rientrare nel computo dei cinque licenziamenti che fanno scattare la procedura collettiva di riduzione di personale anche le risoluzioni consensuali, laddove queste sono la conseguenza di una riorganizzazione lavorativa con modifica sostanziale delle condizioni di lavoro.

11 Settembre 2020


Fonte : Dottrina Lavoro