Decreto dignità: cosa cambia per contratti a termine, somministrazione e licenziamenti [Eufranio Massi]

Probabilmente, al di là di qualche aggiustamento utile per i contratti a termine (ad esempio, la durata massima), sarebbe stato meglio che la lotta al precariato si fosse indirizzata verso le false partite IVA, le collaborazioni autonome di dubbia “autonomia”, il lavoro nero e le false cooperative, piuttosto che intervenire, in modo profondo e pesante, sui contratti a termine e sulla somministrazione ove sussistono forme di garanzia “ben radicate”.

Il c.d. Decreto dignità, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 2 luglio 2018 (nel momento in cui scrivo queste riflessioni non è stato ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale)  è intervenuto, in maniera significativa, sulla disciplina dei contratti a tempo determinato, sulla somministrazione e sull’indennità risarcitoria in materia di licenziamenti illegittimi.
L’analisi che segue, intende esaminare  le novità introdotte negli articoli 19, 21, 28 e 34 del D.L.vo n. 81/2015 e nell’art. 3 del D.L.vo n. 23/2015 ricordando che, per effetto dell’art. 29 (non “toccato”) dalla riforma sono esclusi dal campo di applicazione di tutto il Capo III (e, quindi, anche dalle disposizioni del presente Decreto) una serie di rapporti che fanno riferimento:

  • Agli operai agricoli a tempo determinato la cui disciplina si trova all’interno del D.L.vo n. 375/1993;
  • Ai richiami in servizio dei volontari del Corpo dei Vigili del Fuoco;
  • Ai contratti a termine del personale con qualifica dirigenziale;
  • Ai rapporti per l’esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni, nel settore del turismo e del commercio, nei casi individuati dalla contrattazione collettiva, fermo restando l’obbligo di comunicare l’instaurazione del rapporto di lavoro entro il giorno antecedente. Si tratta di una tipologia contrattuale presente, da tempo, nel nostro ordinamento, ritornata “in auge” dopo la cancellazione dei “voucher” avvenuta con il D.L. n. 25/2017;
  • Ai contratti a termine del personale docente ed ATA per il conferimento delle supplenze ed al personale sanitario, anche dirigente, del Servizio Sanitario Nazionale;
    Ai contratti a tempo determinato ex lege n. 240/2010;
  • Al personale artistico e tecnico delle Fondazioni musicali non si applicano i primi tre commi dell’art. 19 e l’art. 21;
  • Al personale delle Pubbliche Amministrazione continua ad applicarsi l’art., 36 del D.L.vo n. 165/2001.

Le novità del nuovo articolo 19 del Decreto Legislativo n. 81/2015
La lotta al precariato, obiettivo primario dichiarato dall’Esecutivo, parte con una profonda revisione dei contratti a tempo determinato che si concretizza sotto diversi parametri:

  • Aumento dell’aliquota contributiva in caso di rinnovo dopo il primo contratto;
  • Diminuzione della durata massima complessiva riferita ai rapporti a termine, intesi anche in sommatoria;
  • Introduzioni delle causali, a partire dal tredicesimo mese di utilizzazione del lavoratore, sia che si superi la soglia dell’anno in virtù di un contratto iniziale, di una proroga o di un rinnovo;
  • Ampliamento dei termini per la proposizione del ricorso giudiziario.

A tali misure, occorre aggiungerne altre che fanno riferimento al contratto di somministrazione a tempo determinato ove si applicano, quasi interamente, le disposizioni sul contratto a termine (tra cui, le causali) ed all’indennità risarcitoria relativa ai licenziamenti illegittimi prevista dall’art. 3, comma 1 del D.L.vo n. 23/2015 che, per gli assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015, nel limite massimo, rapportato all’anzianità aziendale, per le imprese dimensionate oltre le quindici unità, può arrivare fino a trentasei mensilità partendo da una base di sei (per quelle piccole, fermo restando il tetto massimo delle sei mensilità, la base di partenza viene innalzata a tre, come si evince dalla correlazione della nuova norma con il dettato dell’art. 9 del predetto decreto).

Probabilmente (ma questo è un mio giudizio, del tutto personale), al di là di qualche aggiustamento utile per i contratti a termine (ad esempio, la durata massima), sarebbe stato meglio che la lotta al precariato si fosse indirizzata verso le false partite IVA, le collaborazioni autonome di dubbia “autonomia”, il lavoro nero e le false cooperative, piuttosto che intervenire, in modo profondo e pesante, sui contratti a termine e sulla somministrazione ove sussistono forme di garanzia “ben radicate”.

L’introduzione delle ragioni giustificatrici ed il limite massimo dei ventiquattro mesi
Ma, andiamo con ordine.

Il nuovo comma 1 dell’art. 19 stabilisce che l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato è consentita, senza l’obbligo della introduzione di alcuna causale, soltanto per un periodo di durata non superiore a dodici mesi.

Un termine di durata maggiore è, ovviamente, rispettando il limite massimo di ventiquattro mesi e con l’apposizione di una delle seguenti causali:

  1. esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’attività, e per esigenze sostitutive di altri lavoratori;
  2. esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.

Quanto appena detto merita alcune riflessioni.

La prima riguarda la durata: il contratto a termine, fatte salve le diverse determinazioni della contrattazione collettiva (il comma 2, su questo punto, non è stato toccato come non è stata toccata la possibilità di stipulare alla scadenza del termine massimo un ulteriore contratto presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro), può durare fino a ventiquattro mesi ma l’assenza della causale riguarda, unicamente, il primo contratto a tempo determinato (fino a dodici mesi, magari raggiungibili con una proroga): una durata maggiore necessita di causali, come necessita di causale il rinnovo di un contratto a termine stipulato nell’arco temporale dei dodici mesi (perché si tratta di un secondo contratto). Quindi, tanto per fissare alcuni concetti: il termine si è ridotto a ventiquattro mesi ma le possibilità di deroga alla durata massima restano, seppur “mediate” da alcune specifiche procedure.

La seconda riguarda le causali.

L’introduzione di tali condizioni, riappare dopo la cancellazione di quelle (per la verità, abbastanza ampie) tecnico, produttive, organizzative e sostitutive previste dal D.L.vo n. 368/2001 le quali, anche (ma non solo) per la loro genericità, erano state “portatrici” di un forte contenzioso giudiziale, come dimostrano i cinquantadue anni, dal 1962, nei quali sono rimaste in vigore.  Il Decreto Dignità le reintroduce, riprendendo alcune motivazioni già presenti nella legge n. 230/1962, con una fraseologia che richiama indirizzi giurisprudenziali espressi sotto la vigenza di quella norma.

La prima causale fa riferimento a situazioni temporanee ed oggettive la cui natura sia estranea all’attività produttiva e ad esigenze sostitutive di altri lavoratori come nel caso delle sostituzioni per maternità, malattia, infortunio. Esse, non consentono di oltrepassare la soglia dei ventiquattro mesi, pena la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto, anche in sommatoria con precedenti contratti riferibili a mansioni espletate nel livello della stessa categoria legale di inquadramento. E qui, a mio avviso, resta sempre valido l’accorgimento di inserire nel contratto a termine, oltre alla specifica causale anche il riferimento al fatto che il rapporto cessa al traguardo dei ventiquattro mesi raggiungibili, si ripete, anche in sommatoria.

Si pone, a questo punto, la questione delle sostituzioni per ferie: si tratta di una ragione sostitutiva che rientra all’interno della casistica sub a) o no?

Il dubbio è generato dal fatto che le ferie (e la relativa assenza) rientrano all’interno della “ordinaria” attività di impresa e, come tale, programmabile (sotto l’imperio della legge n. 230/1962, ove si parlava di “sostituzione di lavoratori assenti” vi furono sentenze che portarono a definire illegittima la causale). A mio avviso, si potrebbe pensare ad una lettura diversa rispetto a quella del passato, atteso che, il riferimento all’assenza non c’è più e si parla di “esigenze sostitutive” e che la contrattazione collettiva ha inserito, in passato, le ferie tra le ragioni sostitutive.

Sempre restando all’interno della prima causale il Decreto Dignità parla di esigenze temporanee estranee all’attività ordinaria dell’impresa: qui la questione, se si resta al puro dettato letterale, sembra farsi più complicata, in quanto sembrerebbe che, superando la soglia dei dodici mesi, il contratto possa, stipularsi soltanto per situazioni “straordinarie”, come ad esempio, la gestione di un progetto finalizzato o lo sviluppo di una nuova linea produttiva.

L’altra causale fa riferimento a “esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria”. I tre requisiti, non presentando il testo alcuna congiunzione disgiuntiva,  sembrano dover sussistere congiuntamente.

Se così fosse (ed è augurabile un chiarimento in sede di conversione) la frase potrebbe essere foriera di contenziosi che attengono non soltanto alla temporaneità del contratto ma al fatto che l’incremento dell’attività debba essere “significativo”: ovviamente, in caso di lite, il parametro del giudice potrebbe essere diverso da quello del datore di lavoro (che fino a prova contraria, organizza il lavoro all’interno della propria struttura: quale è la percentuale della significatività? E, poi, come andrà valutato il riferimento agli “incrementi temporanei dell’attività ordinaria non programmabili”? Come verrà valutata, ad esempio, l’acquisizione di una commessa per la quale si è trattato per lungo tempo o come verrà valutato l’incremento, sempre, di una commessa ove, in corso d’opera, il cliente chiede un maggior ordinativo? O come sarà valutata nel settore commerciale l’assunzione di una addetta alle vendite che ha già alle spalle, più di dodici mesi di rapporto a termine con lo stesso datore, per far fronte alle maggiori vendite dei “saldi” (il periodo rientra nella ordinaria attività d’impresa in quanto le date si conoscono dall’inizio dell’anno)? E come ci si comporterà con le c.d. “attività stagionali”? E’ ben vero che il DPR n. 1525/1963 e la contrattazione collettiva, laddove esistente, hanno fornito la definizione di attività stagionali, ma le causali dove sono, atteso che il Decreto Dignità esclude la possibilità di condizioni che non siano riferibili all’attività ordinaria dell’azienda (la lavorazione industriale dei pomodori nei mesi di luglio ed agosto è una attività ordinaria che si ripete tutti gli anni)?

Se la causale verrà meno perché, ad esempio, il giudice non la riterrà sussistente anche per carenza di correlazioni specifiche, il risultato sarà uno soltanto: la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato che rappresenta, non dimentichiamolo, la forma comune del rapporto di lavoro subordinato.

Tutto questo nel breve-lungo periodo potrebbe, non tanto favorire l’occupazione a tempo indeterminato, ma la “rotazione” di contratti a termine di durata non superiore a dodici mesi e, soprattutto, l’esternalizzazione attraverso appalti, anche ai limiti della legalità, il ricorso ad improbabili forme di collaborazione, peraltro sanzionate, in caso di controllo, dall’art. 2 del D.L.vo n. 81/2015 (ma qui saranno gli ispettori del lavoro che dovranno cercare di limitare e controllare il fenomeno). Al contempo, potrebbe essere accentuato il ricorso a terzisti ubicati all’estero la cui proprietà non è dell’impresa che importa in Italia e, che, quindi, non ha delocalizzato e che, di conseguenza, non ricadono nelle misure di recupero previste dall’art. 6 del c.d. Decreto Dignità.

Per completezza di informazione ricordo che in materia di contratti a termine continua a sussistere la sanzione amministrativa (del tutto particolare per come fu pensata) prevista dall’art. 23, comma 4, applicata dagli ispettori del lavoro in caso di superamento della percentuale legale o contrattuale, secondo le modalità declinate dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 18 del 30 luglio 2014.

Il limite massimo dei ventiquattro  mesi non riguarda i contratti di lavoro stagionali per i quali è rimasta invariata (comma 2 dell’art. 21) la previsione già contenuta, a suo tempo, nell’art. 5, comma 4 –ter del D.L.vo n. 368/2001: essi percorrono una strada parallela, destinata a non incontrarsi mai, con quella degli altri contratti a termine.

Infatti, oltre alla non computabilità all’interno dei ventiquattro mesi intesi quale limite massimo, va ricordato che lo “stop and go” tra un rapporto e l’altro non trova applicazione e che l’esercizio del diritto di precedenza per un nuovo contratto, rafforzato attraverso l’informazione scritta contenuta nella lettera di assunzione, riguarda soltanto le ulteriori “campagne stagionali”.

Detto questo, sottolineo, nuovamente, il fatto che tra le causali previste nel Decreto non ce ne sia una che abbia quale riferimento la stagionalità.

Ma, detto questo, torno ad esaminare l’art. 19 ed esattamente il comma 2, ove l’unica novità introdotta riguarda la sostituzione della parola “trentasei” con “ventiquattro”.

Tale limite massimo, tuttavia, può essere derogato sia dalla contrattazione collettiva (la vecchia norma che fa salve le intese sindacali non ha subito cambiamenti), anche aziendale, secondo la specifica offerta dall’art. 51 (v. tra l’altro, l’accordo del settore metalmeccanico ove la sommatoria tra contratto a termine e somministrazione può arrivare al limite dei 44 mesi), che con l’ulteriore contratto stipulato avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro per un massimo di dodici mesi. Senza entrare nel merito di quest’ultima possibilità, cosa che mi porterebbe lontano dall’argomento ricordo che:

  • il Ministero del Lavoro ha fornito i propri chiarimenti con la circolare n., 13/2008;
  • l’ulteriore contratto deve contenere una delle causali indicate nel nuovo art. 19;
  • l’ulteriore contratto “è uno solo”: ciò significa che se, ad esempio, la durata è di sei mesi, tale limite non può essere superato né con una proroga, né con un rinnovo;

Ma, la sommatoria tra contratto a termine e somministrazione, riferibili a rapporti con mansioni che sono individuate nello stesso livello della categoria legale di inquadramento, ai fini del raggiungimento dei ventiquattro mesi, come va effettuata?

La circolare del Ministero del Lavoro n. 18/2012, prendendo lo spunto dal fatto che l’obbligo fu introdotto con la legge n. 92/2012, chiarì che i rapporti di somministrazione dovessero essere calcolati a partire dal 18 luglio del 2012, data di entrata in vigore della norma: ritengo che tale indirizzo possa essere confermato.

La dizione operata dal Legislatore ed il fatto che le note amministrative del Dicastero del Lavoro intervenute in passato (circolari n. 13/2008, n. 18/2012 e n. 18/2014) nulla dicano sull’argomento, indice a ritenere che non sono assolutamente sommabili tra di loro periodi con contratti a termine lavorati alle dipendenze di imprese diverse, pur facenti parte dello stesso gruppo. Il discorso può presentarsi alquanto complesso e delicato in quanto in alcune ipotesi la pluralità di aziende collegate (con un unico centro organizzativo e direzionale) non coincide con la nozione giuridica di “gruppo di imprese”, come dimostrato (sia pure ai fini dell’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970) dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 14553 del 17 agosto 2012.

Ovviamente, si può porre il problema di un’impresa che, per effetto di fusioni ed incorporazioni abbia, giuridicamente, ereditato tutte le posizioni di aziende prima “viventi”: non è possibile trovare una risposta di carattere generale, dovendosi, di volta in volta, valutare i casi concreti: tuttavia, si ha motivo di ritenere che, in quest’ultimo caso, possa operare la sommatoria dei contratti, cosa che, sicuramente si verifica laddove interviene l’art. 2112 c.c. con la cessione di azienda o ramo di essa.

Tornando all’esame del provvedimento governativo occorre rimarcare come il comma 4 dell’art. 19 sia stato riscritto con alcuni specifici cambiamenti.

Il contratto, con la sola eccezione dei rapporti di lavoro di durata non superiore a dodici giorni, deve risultare da atto scritto: in caso contrario, l’apposizione del termine non ha effetto. Rispetto al vecchio testo, è stata espunta la possibilità di provare l’esistenza del termine documentandolo con qualunque altro riferimento diretto od indiretto: la relazione tecnica, allegata al Decreto, ha giustificato tale modifica con la necessità di rendere “più agevole l’interpretazione estensiva della norma”. A mio avviso, poco cambia rispetto al passato nel senso che, senza il termine, il contratto viene inficiato alla radice, ed il rapporto si considera a tempo indeterminato fin dall’inizio.

La forma scritta del contratto riguarda anche i rapporti legati alle attività stagionali, per le quali lo stesso Legislatore ha stabilito ipotesi diverse sia per quel che concerne la non necessità dello “stacco” tra un contratto e l’altro, che per l’esclusione dal computo massimo dei ventiquattro mesi che, infine, per i termini temporali per l’esercizio del diritto di precedenza per un successivo rapporto stagionale.

L’applicazione della disciplina relativa al contratti a termine per attività stagionali non può prescindere da un esame, sia pur breve, delle disposizioni, anche di natura pattizia che hanno trattato, nel tempo la materia, sottolineando, peraltro, che l’art. 19, comma 2, parlando delle proroghe e dei rinnovi, afferma che la trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine ove non sia stato rispettato lo stacco non trova applicazione ai contratti stagionali ove le attività stagionali saranno individuate da un D.M. del Ministro del Lavoro e dalla contrattazione collettiva, anche aziendale, sottoscritta dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Con la stessa disposizione, si afferma la “validità a tempo” del DPR n. 1525/1963 (che contiene attività alquanto desuete) che resta in vigore fino all’entrata in vigore del Decreto Ministeriale (sono trascorsi oltre tre anni dall’entrata in vigore del D.L.vo n. 81/2015 e non è successo nulla).

Il Ministero del Lavoro con la circolare n. 42 del 1° agosto 2002, affermò che non esiste alcuna predeterminazione alla durata dei contratti (il riferimento era alla voce n. 48 del DPR n. 1525/1963 – attività esercitate da aziende turistiche, con un periodo di inattività non inferiore a settanta giorni continuativi o a centoventi giorni non continuativi -), essendo la stessa una variabile strettamente correlata alle esigenze produttive del datore di lavoro, attesa anche la nota dell’INPS espressa con la circolare n. 36/2003 con la quale si ribadiva l’ammissibilità, in via generale, del contratto a termine, strettamente riferito alle esigenze aziendali, supportate dalle motivazioni datoriali. Va, inoltre, ricordato come la contrattazione collettiva nazionale (ora, il Legislatore delegato, amplia tale potere anche a quella aziendale) sia andata oltre il concetto di mera stagionalità (si pensi al settore turistico che, il 30 aprile 2015 ha sottoscritto un ulteriore avviso comune sulla stagionalità, firmato da Federalberghi, Faita, CGIL, CISL e UIL di categoria), tale da ricomprendere quelle imprese che non operano soltanto in un determinato periodo, ma anche durante tutto l’anno e che si trovano ad affrontare problemi legati ad incrementi dell’attività, secondo un indirizzo, un po’ datato del Ministero del Lavoro, espresso nel lontano 1997.

L’art. 19 comma 4, nel testo rinnovato dal Decreto Dignità ribadisce l’obbligo in carico al datore di lavoro di consegnare al dipendente copia dell’atto scritto entro i cinque giorni lavorativi, successivi all’assunzione. La mancata consegna, di per se stessa, non appare gravata di sanzione ma, a mio avviso, rientra negli obblighi previsti dall’art. 4-bis, primo periodo, comma 2, del D.L.vo n. 181/2000, ove si afferma che all’atto della instaurazione del rapporto, prima dell’inizio dell’attività, i datori di lavoro privati sono tenuti a consegnare ai lavoratori copia della comunicazione di instaurazione del rapporto. Tale obbligo si ritiene assolto se il datore consegna, prima dell’inizio dell’attività lavorativa, copia del contratto individuale che contenga tutte le informazioni richieste dal D.L.vo n. 152/1997: la violazione viene punita con una sanzione amministrativa compresa tra 250 e 1.500 euro. L’onere citato nel Decreto Dignità appare, nella sostanza, una duplicazione burocratica che, forse, si poteva evitare.

Questo è solo uno degli oneri amministrativi che gravano sul datore di lavoro e strettamente correlati alla stipula del contratto a termine e forse, questa è, l’occasione per ricapitolarli tutti:

  1. Comunicazione di assunzione: va effettuata, telematicamente, al centro per l’impiego almeno nel giorno antecedente l’effettivo inizio del rapporto. Per i datori di lavoro pubblici (art. 1, comma 2 del D.L.vo n. 165/2001) c’è più tempo, nel senso che l’onere della comunicazione può essere assolto, come, del resto per le agenzie di somministrazione che assumono lavoratori a termine da indirizzare alle aziende utilizzatrici, entro il giorno venti del mese successivo a quello in cui si è verificata l’instaurazione del rapporto (per tali soggetti, il termine riguarda anche le cessazioni e le proroghe). La violazione dell’obbligo è punita con una sanzione amministrativa compresa tra cento e cinquecento euro sanabile, nella misura minima, attraverso l’istituto della c.d. “diffida obbligatoria”;
  2. Trasformazione del rapporto: la comunicazione telematica va inviata entro i cinque giorni successivi al verificarsi dell’evento: la violazione segue le regole sanzionatorie appena riportate;
  3. Comunicazione di cessazione: se la data è stata già indicata nella comunicazione di assunzione, l’onere si intende assolto (in caso contrario tutto va fatto entro i cinque giorni successivi e l’apparato sanzionatorio è identico ai precedenti casi);
  4. Scritturazioni sul Libro Unico del Lavoro: vanno effettuate entro la fine del mese successivo cui le stesse si riferiscono.

Il nuovo comma 4 prosegue, ricordando che in caso di rinnovo (quindi di un nuovo contratto a tempo determinato) l’atto scritto deve contenere la specificazione di una delle causali previste al comma 1: qualora, invece, ci si trovi di fronte ad una proroga (come vedremo, nei ventiquattro mesi possono essere soltanto quattro e non cinque) l’individuazione della condizione alla base del contratto è necessaria soltanto se il termine complessivo supera i dodici mesi. Da quanto appena detto si evince, chiaramente, che un primo contratto a termine di sei mesi, può essere restare senza causale se, con la proroga, non supera la soglia sopra indicata, mentre se il primo cessa e, poi, se ne stipula un altro, è necessaria la causale pur se si dovesse restare, in sommatoria con il precedente contratto, entro il tetto dei dodici mesi.

Sempre il comma 4 dell’art. 19 riconferma che per i rapporti di breve durata non superiori a dodici giorni non è necessaria la forma scritta.

La prova di queste situazioni, infatti, non è soggetta a prescrizioni formali e, in caso di giudizio, può essere fornita dal datore di lavoro secondo i principi generali sulla ripartizione dell’onere probatorio (Cass., 8 luglio 1995, n. 7507).

Il periodo va inteso, a mio avviso, come dodici giorni lavorativi, in quanto appare plausibile che il parametro di riferimento sia rappresentato dalle “due settimane”, comprensive dei due giorni di riposo ex art. 9 del D.L.vo n. 66/2003.

Alcune considerazioni si possono trarre dal disposto normativo:

  • La mancanza della forma scritta è un fatto puramente formale, atteso che sul datore di lavoro grava sempre l’obbligo della comunicazione di assunzione anticipata telematica al centro per l’impiego;
  • Il contratto rientra nella percentuale legale del 20% ed in quella prevista dalla contrattazione collettiva (a meno che non vi sia stata una esplicita esclusione);
  • Il venir meno della occasionalità, un tempo prevista dal D.L.vo n. 368/2001, consente ai datori di lavoro di usufruire, più volte di tale tipologia contrattuale a condizione che non si superi il termine massimo dei dodici giorni, ma, il nuovo dettato normativo (trattandosi di rinnovo pur se la “forma” resta orale) chiede che il rapporto sia supportato da una causale (almeno questa appare la lettura coordinata con le nuove disposizioni);
  • Non è consentita la utilizzazione di istituti che consentano il superamento di tale limite (sforamento del termine, proroga, ecc.).

Sui contratti non a tempo indeterminato (art. 2, commi 28 e 29 della legge n. 92/2012), compresi quelli stipulati dalle c.d. “star-up innovative” e quelli “orali” fino a dodici giorni, si applica un contributo addizionale, a carico dei datori di lavoro, pari all’1,40% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, il cui scopo principale è, oggi, quello di contribuire al finanziamento della NASPI.  Ora, con la previsione contenuta nel comma 2 dell’art. 3 del c.d. Decreto Dignità) il contributo dell’1,40% viene aumentato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato: tale regola vale anche per la somministrazione.

Il contributo addizionale non si applica:

  • Ai lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
  • Ai lavoratori assunti a tempo determinato per lo svolgimento di attività stagionali;
  • Agli apprendisti che, però, stipulano, sin dall’inizio, un contratto a tempo indeterminato, fatta eccezione per quelli stagionali disciplinati contrattualmente, al momento, nel solo settore del turismo;
  • Ai lavoratori dipendenti dalle Pubbliche Amministrazioni, individuate ex art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001.

Nell’intento di favorire la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto, il Legislatore (art. 2, comma 30, come interpretato dall’art. 1, comma 135, della legge n. 147/2013) ha previsto la possibilità di una restituzione della contribuzione aggiuntiva. Dal 1° gennaio 2014 essa è totale avviene nel caso in cui, alla scadenza di un contratto a termine, il rapporto viene trasformato a tempo indeterminato. C’è, poi, un’altra ipotesi che non è “legata” alla immediata trasformazione: è quella secondo la quale la riassunzione con contratto a tempo indeterminato del lavoratore avvenga entro il termine massimo di sei mesi dalla cessazione del precedente rapporto. In questo caso, però, la restituzione degli ultimi sei mesi non è “piena” ma vanno “defalcate” le mensilità trascorse dalla cessazione del precedente rapporto a termine, come chiaramente affermato dall’INPS nella circolare n. 15/2014. La trasformazione (v. messaggio INPS n. 4152 del 17 aprile 2014) può avvenire, qualora ne ricorrano le condizioni, anche con un rapporto di apprendistato: a tal proposito, l’INPS richiama il contenuto dell’interpello del Ministero del Lavoro n. 8/2007 il quale ritiene attivabile la tipologia pur in presenza di precedenti rapporti a termine o di somministrazione la cui durata non abbia superato la metà del periodo formativo dell’apprendistato (in sostanza, diciotto mesi per quello professionalizzante, con esclusione delle qualifiche riferite al settore artigiano).

Per completezza di informazione ricordo che la trasformazione a tempo indeterminato di un contratto a termine va vista anche nella logica incentivante dei commi 100 e seguenti dell’art. 1 della legge n. 205/2017 ove il giovane, almeno per il 2018, non deve aver varcato la soglia dei trentacinque anni (trenta, a partire dal 2019).

I contenuti dell’art. 21 in ordine alle proroghe ed ai rinnovi
L’istituto delle proroghe e dei rinnovi è stato, profondamente, ritoccato.

L’esame che si intende effettuare riguarda non soltanto l’istituto ma anche le possibili correlazioni con altri “passaggi normativi” non toccati dalla legge di riforma.

Ma, andiamo con ordine.

Prima del comma 1, è stato inserito il comma 01 ove si stabilisce che il contratto a termine può essere rinnovato soltanto in presenza di una delle causali individuate al comma 1 dell’art. 19 e che, qualora ci si trovi di fronte al primo rapporto, questo può essere prorogato liberamente all’interno del periodo massimo (dodici mesi) mentre, se si supera tale soglia, soltanto in presenza di una esigenza specifica contemplata dalla causale.

Ora, il numero massimo delle proroghe viene stabilito in quattro nell’ambito dei ventiquattro mesi e a prescindere dal numero dei rinnovi contrattuali che, comunque, è bene ripeterlo, a partire dal secondo, debbono essere supportati da una causale, pur se si è all’interno dei primi dodici mesi.

Ma, cosa succede se il numero delle proroghe, nell’arco temporale prefissato, risulta superiore a quattro?

Il Decreto Dignità, afferma che il rapporto si considera a tempo indeterminato a partire dalla data di decorrenza della quinta proroga (e non, quindi, dall’inizio).

Il consenso del lavoratore è sempre richiesto: qui nulla è cambiato rispetto al passato e la stessa Giurisprudenza ha convenuto, fin dalla vigenza della legge n. 230/1962, che lo stesso potesse essere manifestato in forma orale (Cass., n. 6305/1988; Cass., n. 4360/1986; Cass., n. 3517/1981), o ravvisabile per “fatti concludenti” dalla prosecuzione dell’attività lavorativa (Cass. n. 4939/1990) e potendo essere fornito dal prestatore, anche in via preventiva, al momento della stipula iniziale (Cass., n. 6305/1988).

Si pone, poi, un’altra questione relativa alla proroga, cosa che, con il vecchio testo, era di secondaria importanza: ora, tranne il caso dei primi dodici mesi, anche la proroga va motivata con una causale. Quindi, potrebbero tornare in auge le conclusioni alle quali, in presenza delle condizioni previste al comma 1 dell’art. 19, giunse la Giurisprudenza (Cass., n. 10140/2005; Cass., n. 9993/2008) che l’aveva riferita alla “dimensione oggettiva riferibile alla destinazione aziendale”. Ciò stava a significare che attraverso la proroga il dipendente non poteva essere adibito ad altre attività non correlate a quelle per le quali il contratto era stato originariamente stipulato: ovviamente, la proroga, ferme restando le mansioni, potrebbe riferirsi ad una causale (ad esempio, ragioni sostitutive) diversa da quella originaria (ad esempio, incrementi temporanei e significativi).

Un problema del tutto particolare è rappresentato dall’istituto della proroga per i dirigenti che,  possono stipulare contratti a termine di durata non superiore a cinque anni. La giurisprudenza, sotto la vigenza della precedente normativa, aveva chiarito che la proroga (comunque, entro il limite massimo) era possibile anche senza necessità di rispetto delle condizioni modali e temporali stabilite dall’art. 2 della legge n. 230/1962 (Cass., 28 novembre 1991, n. 1274; Cass., 17 agosto 1998, n. 8069).

L’istituto della proroga non trova applicazione (art. 29, comma 4), per il personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale.

L’art. 21, comma 3 afferma, poi, che i limiti relativi alle proroghe ed ai rinnovi non si applicano alle imprese c.d. “start up innovative” previste dall’art. 25 della legge n. 221/2012 per il periodo di quattro anni dalla costituzione o per il più limitato arco temporale previsto dal comma 3 dell’art. 25 per le società già costituite.

C’è, poi, il problema delle proroghe nei contratti stagionali: la norma inserita nell’art. 21 ha una valenza generale che, però, poco si attaglia ai rapporti la cui causale è la stagionalità. Probabilmente, la questione è meno pressante che in altri settori potendosi, per legge, “legare” un contratto all’altro senza soluzione di continuità, ma questo significa, da un punto di vista prettamente operativo, una maggiore difficoltà burocratica (occorre stipulare un nuovo contratto, sono necessari altri adempimenti, ecc.). Nel settore alimentare, forzando un po’ la disposizione legale, il 7 novembre 2014 le associazioni datoriali aderenti a Confindustria e quelle nazionali di categoria di CGIL, CISL e UIL hanno stabilito che nei rapporti stagionali del settore ogni singolo contratto, la cui durata massima è di otto mesi, può essere prorogato fino a quattro volte.

Il discorso relativo a tale istituto non può non riferirsi, sia pure, con un breve accenno, alle proroghe previste per un’altra tipologia contrattuale quella del contratto di somministrazione: ora, la novità introdotta con l’art. 2 del Decreto Dignità nel “corpus” dell’art. 34, fa si che come nel contratto anche per le proroghe si applichi la normativa, con le causali, prevista per i contratti a tempo determinato  e che le stesse non possano superare il numero di quattro.

La proroga del contratto a tempo determinato va comunicata esclusivamente in via telematica, entro cinque giorni dal momento in cui si è verificata (se cade di giorno festivo il termine è, legittimamente, prorogato al primo giorno non festivo successivo) al centro per l’impiego, competente per territorio o presso il quale il datore di lavoro è accreditato, utilizzando la sezione 4 del modello “Unilav”. L’inottemperanza al precetto (mancata comunicazione o ritardo) è punita con una sanzione amministrativa compresa tra cento e cinquecento euro, onorabile con il minimo per effetto della c.d. “diffida obbligatoria”

Termine per l’impugnazione e mancanza di norme transitorie
Il Decreto Dignità (art. 1) ha introdotto, altresì, un ulteriore modifica di natura processualistica che va ad inserirsi nel comma 1 dell’art. 28: l’impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, pena la decadenza, entro centottanta giorni (prima erano centoventi) dalla sua comunicazione in forma scritta o dalla comunicazione, sempre in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale: essa può avvenire, con qualsiasi atto, anche di natura extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore al datore di lavoro anche attraverso l’intervento di una organizzazione sindacale: ovviamente, l’impugnazione è inefficace se non segue, con le modalità previste dal secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604/1966, il deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale in funzione di giudice del lavoro.

Ovviamente, l’allungamento dei termini per proporre il ricorso giudiziale dovrebbe consentire, in un ottica di prevedibile aumento delle liti legate, soprattutto, all’accertamento della veridicità delle causali, situazioni conciliative pregiudiziali tra lavoratore (magari assistito da un legale) e l’azienda, con un sicuro aumento dei costi indiretti legati alla soluzione risarcitoria finalizzata ad evitare l’intervento della Magistratura.

Appare, a commento, dell’art. 1 del Decreto, utile sottolineare le disposizioni contenute nel comma 2: la nuova normativa si applica a tutti i contratti a termine stipulati successivamente alla entrata in vigore del  Decreto Legge e, cosa importante, ai rinnovi ed alle proroghe dei contratti a tempo determinato in corso alla data di entrata in vigore del provvedimento.

Da quanto appena detto si ricava una considerazione: l’Esecutivo non ha pensato ad un periodo transitorio per quei contratti in corso che, la data di pubblicazione del testo in Gazzetta Ufficiale, abbiano superato la soglia dei ventiquattro mesi (essi erano nati quando il tetto massimo si raggiungeva a trentasei mesi). Ebbene, tali rapporti non possono essere rinnovati o prorogati ed il datore dovrà scegliere se risolvere il rapporto ed assumere un altro lavoratore, oppure trasformare lo stesso, da subito, a tempo indeterminato (magari, usufruendo del beneficio previsti dal comma 100 dell’art. 1 della legge n. 205/2017, in presenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dal Legislatore).

Il contratto a termine nelle Pubbliche Amministrazioni
Una breve riflessione anche sui contratti a termine delle Pubbliche Amministrazioni che, in gran parte, sono quelle individuate dall’art. 1, comma 2, del D.L.vo n. 165/2001 (il Decreto Dignità non ne parla): rientrano nella nuova disciplina o no?

La risposta fornita dal comma 3 dell’art. 2 del Decreto Dignità è negativa e viene detto, espressamente che nei contratti a tempo determinato continua ad applicarsi la disciplina “ad hoc” vigente, in quanto ne viene riconosciuta la “specialità”.

Vale la pena di ricordare che le prestazioni a tempo determinato vengono regolamentate dall’art. 36 del D.L.vo n. 165/2001 il quale, peraltro, ne subordina l’attivazione a “comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”, nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall’art. 35. C’è, tuttavia da sottolineare che il richiamo effettuato all’interno dell’art. 36, all’art. 19 del D.L.vo n. 81/2015, comporti che la durata massima non sia più di trentasei mesi ma di ventiquattro. Si potrebbe sostenere che la dizione normativa potrebbe continuare a configurare un termine massimo di trentasei mesi: sarebbe opportuno, in sede di conversione, chiarire la questione.

In ogni caso, pur senza la precisazione contenuta nel Decreto Dignità nel settore pubblico la materia continua ad essere disciplinata dall’art. 36 sopra richiamato come previsto dal comma 4 dell’art. 29, non “toccato” dalla riforma.

Modifiche alla disciplina della somministrazione di lavoro
Il Decreto Dignità ha introdotto una modifica di natura sostanziale alla disciplina del contratto di somministrazione a termine il quale rappresenta, sostanzialmente, il “core business” delle Agenzie di lavoro.

Si è intervenuti, modificandolo, sul primo periodo del comma 2, dell’art. 34 del D.L.vo n. 81/2015. Ora, al rapporto di lavoro tra somministratore (Agenzia) e lavoratore si applica la disciplina del Capo III che regola il contratto a tempo determinato con la sola eccezione degli articoli 23 e 24.

Ciò significa, ad esempio, che, fatte salve le diverse determinazioni della contrattazione collettiva, il contratto di somministrazione può durare, al massimo, ventiquattro mesi (termine non superabile), che, ad eccezione del primo contratto che può durare fino a dodici mesi, occorre che il rapporto sia supportato da una delle causali, individuate dal nuovo comma 1 dell’art. 19, che le proroghe non possano essere più di quattro e che il termine di decadenza per impugnare il contratto è fissato in centottanta giorni.

Per quel che riguarda il numero delle proroghe che il CCNL di settore fissa in sei, in ottemperanza alla possibilità concessagli dall’art. 34, comma 2 (non abrogato), occorrerà, in sede di conversione, definire, con chiarezza, la questione.

Restano fuori le previsioni dell’art. 23 che tratta il numero complessivo dei contratti a termine stipulabili in un’impresa calcolato sul numero dei dipendenti a tempo indeterminato in forza alla data del 1° gennaio dell’anno al quale si riferisce l’assunzione nella misura legale del 20% o in quella diversa prevista dalla contrattazione collettiva e dell’art. 24 sul diritto di precedenza dei lavoratori che hanno prestato la propria attività a termine per un periodo, anche in sommatoria di più contratti, superiore a sei mesi.

Come detto, anche nella somministrazione vengono introdotte le causali tra somministratore e lavoratore con le stesse modalità previste nei contratti a tempo determinato: ciò varrà anche per l’ipotesi prevista dal secondo periodo del comma 3 dell’art. 34. Ci si riferisce alla somministrazione di lavoratori disabili per missioni di durata non inferiore a dodici mesi, cosa che consente all’utilizzatore di computare nella quota di riserva il portatore di handicap. Ora, applicandosi le causali previste per il tempo determinato se si tratta di un primo contratto di durata non superiore ad un anno “nulla quaestio”: ma se non è il primo contratto o lo stesso supera la soglia dei dodici mesi occorre una delle due causali previste dall’art. 19 che, ad avviso di chi scrive, non sono, nella maggior parte dei casi, riconducibili a quella che è la “vera” causale della somministrazione del disabile (valutazione dello stesso, prodromica ad una possibile futura assunzione, in un arco temporale abbastanza lungo da favorire un fattivo ingresso nella organizzazione aziendale), atteso che l’impresa risulta carente nella aliquota d’obbligo prevista dall’art, 3 della legge n. 68/1999.

La mancanza di un periodo transitorio per i contratti in corso fa si che rapporti che hanno superato la soglia del biennio non possano essere rinnovati o prorogati, cosa che potrebbe comportare, operativamente, una serie di questioni per le c.d. “missioni” in corso presso privati e strutture pubbliche (si pensi, ad esempio, agli operatori presso le ASL).

L’introduzione delle causali nel rapporto tra somministratore e lavoratori rischia di avere effetti negativi sulle attività delle Agenzie in quanto esse saranno quelle individuate dall’utilizzatore e che risultavano dal contratto commerciale tra l’impresa di somministrazione ed il “cliente”: un eventuale contenzioso per causali che dipendono unicamente dalla valutazione del “cliente” non potranno non riverberarsi sul titolare del rapporto che è l’impresa somministratrice.

Indennità di licenziamento ingiustificato
Con l’art. 3 il Decreto Dignità interviene sulla indennità prevista dal comma 1 dell’art. 3 del D.L.vo n. 23/2015 rivedendo, al rialzo, il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa riferibile ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015, data “spartiacque” anche riguardo alla applicazione delle tutele previste dall’art. 18 della legge n. 300/1970.

Prima di entrare nel merito della novità introdotta e dei rilessi correlati, ritengo opportuno sottolineare come con il Decreto non vengano “toccati” gli elementi basilari introdotti con la riforma del 2015:

l’indennità risarcitoria in presenza di un licenziamento illegittimo dovuto a giusta causa, giustificato motivo oggettivo o soggettivo: la reintegra nel posto di lavoro continua ad avvenire soltanto a fronte di un recesso di natura disciplinare ove il fatto materiale non sussiste e nei casi, assolutamente gravi con violazioni di legge o, per i portatori di handicap, ove non sussiste la motivazione alla base del licenziamento;
il compito del giudice nella definizione dell’ammontare dell’indennità risarcitoria continua a non esserci in quanto lo stesso resta correlato all’anzianità aziendale:
Affermava la vecchia norma che nelle ipotesi in cui si riscontri che non ricorrono gli estremi del licenziamento (cosa che comporta una valutazione da parte del giudice di merito) per giustificato motivo oggettivo (ad esempio, mancata soppressione del posto di lavoro, mancato repechage e la questione è da valutare anche alla luce del nuovo art. 2103 c.c., come sostituito dall’art. 3 del D.L.vo n. 81/2015 ecc.) , o per mancato motivo soggettivo anche di natura disciplinare (notevole inadempimento nella prestazione lavorativa) o giusta causa (quella che non consente la continuazione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro), il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità, non assoggettata ad alcuna contribuzione, pari a due mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

Ora, secondo la nuova previsione, l’indennità, che ha natura risarcitoria, non può essere inferiore a sei mensilità e non superiore a trentasei mensilità calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR: per il calcolo e la misura dell’indennità per frazioni di anno occorre riferirsi alla previsione contenuta nell’art. 8. Vale la pena di sottolineare come il tetto massimo, applicandosi la disposizione a tutti coloro che sono stati assunti a partire dal 7 maggio 2015, si raggiungerà, per i più anziani, nel 2033.

Tale disposizione va, necessariamente, correlata anche con l’art. 9 del D.L.vo n. 23/2015 ove si afferma per i datori di lavoro che non raggiungano i limiti dimensionali previsti dai commi 8 e 9 dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e quelli non imprenditori che svolgono, senza fine di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione o di religione o di culto, gli importi previsti dall’art. 3, comma 1 (che ora sono due mensilità all’anno partendo da una base di sei) sono dimezzati (quindi, una mensilità all’anno partendo da una base di tre) ma, il tetto massimo, evidenziato esplicitamente all’art. 9 che non è stato ritoccato, continua ad essere pari a sei mensilità.

Nulla è cambiato per l’offerta conciliativa ad accettazione del licenziamento ex art. 6 del D.L.vo n. 23/2015, ove i valori delle somme, esenti da IRPEF, correlati all’anzianità aziendale, sono rimasti uguali: una mensilità all’anno partendo da una base di due, fino ad un massimo di diciotto. Tali valori sono ridotti alla metà per i datori di lavoro individuati all’art. 9 ai quali si è fatto cenno pocanzi, con un tetto massimo fissato a sei mensilità.

Due riflessioni, si rendono necessarie rispetto alle cose appena dette.
La prima riguarda la nuova indennità risarcitoria che nei limiti massimi (sia pure rapportati all’anzianità aziendale) appare superiore (trentasei mesi) rispetto alla tutela economica prevista dall’art. 18 che, ad esempio, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo va da dodici a ventiquattro mensilità, secondo un’applicazione giudiziale che tiene conto di una serie di parametri.

La seconda concerne  l’offerta conciliativa ex art. 6 che, alla luce delle nuove indennità appare “meno conveniente”, rendendo più appetibile, per il lavoratore, affrontare l’alea del giudizio.

La terza deve, necessariamente, far riferimento al giudizio pendente avanti alla Corte Costituzionale, su diversi aspetti del D.L.vo n. 23/2015 (la decisione è prevista per l’autunno prossimo), a seguito della remissione operata dal giudice di Roma. Tra i molteplici motivi portati all’esame della Consulta c’è anche quello relativo all’esiguità del compenso indennitario: se, in sede di conversione, passeranno i nuovi importi previsti dal Decreto Dignità, i giudici dovranno valutare se la novità normativa faccia venir meno la doglianza specifica.


11 Luglio 2018


Fonte : Dottrina Lavoro