Procedura collettiva di riduzione di personale: vademecum sulle questioni principali [E. MASSI]

La maggior parte dei licenziamenti, o della riduzione di personale, per motivi economici avvengono, nel nostro Paese, nelle imprese dimensionate oltre le quindici unità o al termine di fruizione della CIGS, al termine di un iter procedimentale ben definito dalla legge n. 223/1991.
Lungi dall’affrontare una riflessione su tutta la normativa inerente le problematiche relative alla procedura collettiva di riduzione di personale, si ritiene opportuno focalizzare le questioni relative ai punti maggiormente qualificanti della stessa che, per certi aspetti, hanno subito significative novità nell’ultimo periodo.

Campo di applicazione
Sono soggetti all’iter procedimentale previsto dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991 le imprese che al termine del periodo di CIGS non sono in grado di assicurare il rientro in attività di tutto il personale o i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori, compresi gli artigiani, le società cooperative di produzione e lavoro e le imprese di navigazione che occupano più di 15 dipendenti. Dalla disciplina generale sono esclusi i recessi in edilizia per fine lavori, le attività stagionali ed i contratti a tempo determinato in scadenza.

Per quel che concerne le imprese in CIGS la verifica del requisito dimensionale va effettuata al momento dell’accesso in CIGS (v. anche interpello n. 29/2012) ed alle stesse (v. art. 4 della legge n. 223/1991) non trova applicazione il limite numerico dei licenziamenti ipotizzati (almeno 5).

Per il calcolo della soglia dei 15 dipendenti occorre riferirsi alla media degli occupati nell’ultimo semestre e non al numero dei dipendenti in forza al momento in cui inizia la procedura (Cass. n. 12592/1999) o quando cessa l’attività o si realizzano i licenziamenti (Cass. n. 1465/2011).

Per effetto di quanto previsto dall’art. 16 della legge n. 161/2014 (c.d. “legge comunitaria” 2013 – bis) i dirigenti vanno inseriti nella base di calcolo: così facendo il Legislatore ha “stoppato” la procedura di infrazione n. 2007/4652 e le conseguenze della sentenza di condanna della Corte Europea di Giustizia del 13 febbraio 2014.

Per quel che concerne il settore edile va sottolineato come l’esclusione dalla procedura operi soltanto se c’è “un fine lavoro” o anche una singola fase di lavoro che abbia richiesto specifiche professionalità. Non si può parlare di esclusione allorquando l’opera sia in graduale esaurimento e si renda necessaria una sorta di scelta tra i lavoratori da licenziare (Cass. n. 2782/2008).

Condizioni richieste per l’attivazione dell’iter
Esse sono, sostanzialmente, riconducibili alla riduzione o alla trasformazione del lavoro o dell’attività  ed alla cessazione di quest’ultima. Il ridimensionamento aziendale può discendere anche da una diversa organizzazione del lavoro, cosa che non significa crisi aziendale (Cass., n. 11984/1997). La riduzione di personale può riguardare anche lavoratori in aspettativa se l’impresa ritiene necessario eliminare posti di lavoro ai quali erano adibiti e che non troverebbero più al rientro in azienda (Cass., n.6553/1998).

Si può parlare di licenziamento collettivo allorquando (con l’esclusione delle imprese provenienti dalla CIGS, per le quali non sussiste il limite minimo) si intendano effettuare almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni nell’unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito della provincia. Tali sono considerati tutti i recessi riconducibili alla medesima causale nello stesso arco temporale e nello stesso ambito territoriale. Nel numero ipotizzato rientrano anche i dirigenti, per effetto di quanto previsto dall’art. 16 della legge n. 161/2014. Il nesso di causalità e di congruità va sempre effettuato (Cass. n. 12297/1998).

Procedura collettiva
La procedura ipotizzata dalla legge n. 223/1991 prevede due momenti: quello della c.d. “fase sindacale” (in azienda o in associazione) e quella, eventuale, in sede amministrativa che si svolgeva, sicuramente, dopo il passaggio delle competenze per effetto dell’art. 3 del D.L.vo n. 369/1997, presso la Provincia o la Regione (con  la Direzione territoriale del Lavoro, ora Ispettorato territoriale del Lavoro, invitata al tavolo della trattativa).

Ora, però, la situazione appare, un attimo, un po’ ingarbugliata perché, da un punto di vista normativo, con l’abrogazione del D.L.vo n. 369/1997, avvenuta, dal 25 settembre 2015, con il D.L.vo n. 150, le Regioni hanno conservato la competenza in materia di esame congiunto per la CIGS e, si aggiunge, per il contratto di solidarietà, divenuto “ammortizzatore sociale” a tutti gli effetti, grazie al D.L.vo n. 148/2015, ma nulla è stato detto per la mera procedura collettiva che, stando così’ le cose, dovrebbe risultare in capo ai singoli Ispettorati territoriali del Lavoro, “eredi” dei vecchi Uffici provinciali del Lavoro di cui parla l’art. 4 della legge n. 223/1991 (del resto, nel regolamento che attribuisce loro i compiti, viene affidato il compito della conciliazione delle controversie di lavoro).

La questione, non affrontata direttamente dal Legislatore, non è di secondaria importanza, in quanto in caso di procedura conclusa in sede amministrativa avanti ad un “Ufficio non competente”, ci si potrebbe trovare avanti al giudice di merito che potrebbe ritenere l’iter procedimentale “viziato”, con tutte le conseguenze del caso. Si consiglia, ma questo lo si vedrà successivamente, in caso di mancato accordo in sede sindacale, di chiedere l’incontro all’Ispettorato territoriale competente (che, tra, l’altro, nella maggior parte delle articolazioni presenta carenze di personale addetto a tali compiti) che potrà convocare le parti con la presenza di un esponente della Regione o della Provincia delegata (che, quasi sempre, è “più attrezzato nella materia”).

Qualora la procedura interessi più articolazioni dell’impresa ubicate in diverse Regioni, la competenza amministrativa è del Ministero del Lavoro.

Comunicazione dei motivi
Il datore di lavoro che intende aprire una procedura collettiva di riduzione di personale, deve comunicare per iscritto (anche per il tramite della propria associazione) alla propria RSA o RSU ed alle organizzazioni di categoria una serie di elementi. In mancanza di strutture sindacali interne la comunicazione va inviata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Se la procedura riguarda anche personale con qualifica dirigenziale, la comunicazione va inviata anche alle associazioni di rappresentanza dei dirigenti (art. 16 della legge  n. 161/2014).

A differenza del passato, a partire dal 1° gennaio 2017 il datore di lavoro non deve più pagare l’anticipo del contributo di ingresso alla mobilità e allegarne copia, in quanto da quella data i lavoratori eccedentari vanno in NASPI e, quindi, va pagato il c.d. “ticket licenziamento” che, per le imprese rientranti nel campo di applicazione della CIGS, risulta raddoppiato dal 1° gennaio 2018. Ma su questo aspetto ci si soffermerà più avanti.

Ma, cosa deve contenere la comunicazione?

  1. i motivi tecnici, organizzativi e produttivi a seguito dei quali il datore ritiene che il problema possa essere risolto soltanto con il ricorso ai licenziamenti collettivi. L’indicazione delle ragioni sembra utile anche per riscontrare la effettività e la definitività della riduzione di personale al momento in cui si inizia la procedura. Tutto questo è funzionale a fornire elementi probanti alle organizzazioni sindacali per l’esame congiunto (Cass., n. 15943/2006). Secondo la Suprema Corte (Cass., n. 5143/2013; Cass., n. 9348/2011; Cass., n. 24343/2010) se la riduzione richiesta è legata esclusivamente alla necessità di ridurre il costo del lavoro, la comunicazione può esser limitata alla indicazione del numero dei lavoratori ritenuti eccedentari, suddiviso tra i diversi profili professionali.  Ciò è da tener presente anche nel caso in cui la procedura si concluda con un accordo sindacale ove il criterio prescelto è quello volontario o della vicinanza alla pensione come, ad esempio, se si accede alla ipotesi del prepensionamento, secondo le regole individuate dall’art. 4, commi da 1 a 7 ter, della legge n. 92/2012, o si offre al singolo lavoratore la possibilità di fruire della c.d. APE aziendale, con l’uscita anticipata del lavoratore con almeno 63 anni (e 20 di contributi) e con il versamento da parte dell’imprenditore, in un’unica soluzione, della contribuzione che avrebbe dovuto versare fino al compimento dell’età del pensionamento di vecchiaia;
  2. il numero, la collocazione aziendale ed i profili professionali del personale ritenuto in esubero, nonché il numero del personale abitualmente impiegato. La riduzione di personale può riguardare anche lavoratori in aspettativa, in quanto il datore potrebbe ritenere necessaria la eliminazione del posto di lavoro che potrebbero rioccupare al rientro in azienda (Cass., n. 6563/1988);
  3. i tempi di attuazione del programma di riduzione degli organici;
  4. le eventuali misure programmate per ridurre le conseguenze sul piano sociale;
  5. il metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva.

Gli eventuali vizi inerenti la procedura possono essere sanati, per ogni effetto di legge (in sostanza, “stoppando” anche eventuali situazioni che potrebbero dar adito a ricorsi), attraverso un accordo sindacale concluso nel corso della procedura (art. 1, comma 45, della legge n. 92/2012).

Esame congiunto in sede sindacale
Una volta inviata la comunicazione di apertura della procedura le rappresentanze sindacali interne e quelle di categoria hanno 7 giorni di tempo dalla ricezione della nota, per chiedere un esame congiunto, il cui scopo è quello di valutare la richiesta di esuberi avanzata dal datore di lavoro e di esaminare tutte le ipotesi alternative al recesso, ivi compreso il ricorso ai contratti di solidarietà, alla CIGS (nelle varie ipotesi), al demansionamento (anche di categoria, secondo la lettura fornita dalla Cassazione), o al distacco.

Nell’esame si valutano anche ipotesi di accompagnamento finalizzate a favorire la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori che, in caso di conferma, anche parziale, degli esuberi, saranno licenziati.

La procedura in sede sindacale dura 45 giorni (computati dalla data di ricezione della comunicazione datoriale di avvio della procedura): i termini sono ridotti a 23 giorni se il numero dei lavoratori per i quali è stato chiesto il recesso è inferiore a 10.
Esame congiunto in sede amministrativa
Nel caso in cui in sede sindacale non sia stato raggiunto alcun accordo, la norma (art. 4 della legge n. 223/1991) prevede un ulteriore tentativo in  via amministrativa (30 giorni la durata, ridotti della metà se i lavoratori interessati sono meno di 10): sul datore di lavoro incombe l’onere di comunicare gli esiti dell’incontro e lo “stato” della trattativa.

A chi va inviata la richiesta?

  1. All’Ispettorato territoriale del Lavoro a seguito dell’abrogazione del D.L.vo n. 369/1997;
  2. Alla Regione o alla Provincia delegata alla quale resta comunque, l’onere dell’esame congiunto concernente gli ammortizzatori sociali;
  3. alla Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali se l’eccedenza riguarda unità produttive ubicate in più Regioni.

La ripartizione appena evidenziata ha valore relativo, nel senso che, per la particolare importanza della controversia collettiva, sovente, il tavolo di confronto, pur trattandosi di realtà locali, viene spostato a livello centrale o, per il coinvolgimento di altri aspetti, al Ministero dello Sviluppo Economico.

Criteri di scelta
E’ l’art. 5 della legge n. 223/1991 a preferire, in caso di accordo, che i criteri di scelta vengano concordati tra le parti. Quelli di natura legale debbono, invece, essere privilegiati nel caso in cui nell’accordo sindacale non ne siano stati indicati o, nell’ipotesi in cui la trattativa si sia conclusa con un mancato accordo.

In caso di accordo sindacale i criteri adottabili sono i più svariati: dalle esigenze tecnico – produttive, variamente coniugate, alla volontarietà, alla vicinanza al trattamento pensionistico (anche nella forma del pensionamento anticipato ex art. 4, commi da 1 a 7–ter della legge n. 92/2012 o dell’APE aziendale che, in ogni caso, presuppone il pieno consenso dei lavoratori interessati)

La Cassazione (Cass., n. 16107/2001) afferma che l’accordo può prevedere sia criteri astratti che criteri in base ai quali il datore evidenzia facilmente i dipendenti da licenziare e che deve, in ogni caso essere rispettato il principio di non discriminazione, ad esempio, relativo al personale affetto da disabilità (Cass., n. 1405/2006).

Va precisato, anche per i riflessi circa la rappresentatività ex art. 19 della legge n. 300/1970 che gli accordi sindacali nelle procedure di mobilità non appartengono ai c.d. contratti normativi destinati a regolare i rapporti  di lavoro, ma hanno natura gestionale la cui efficacia, seppur importante, è limitata al singolo caso (Corte Costituzionale, n. 268/1994; Cass., n. 3271/2000, Trib. Napoli, 6/11/2014).
L’accordo raggiunto ha efficacia nei confronti di tutti i lavoratori pur se non iscritti alle OOSS firmatarie (Cass., n. 1760/1999): ovviamente, i singoli possono impugnare l’accordo se viziato, come nel caso della violazione dei principi di non discriminazione.

I criteri legali da seguire in concorso tra loro, in caso di mancata indicazione di altri nell’accordo sindacale (e, ovviamente, in caso di mancato accordo), sono:

a) carichi di famiglia;
b) anzianità;
c) esigenze tecnico – produttive ed organizzative.

La comparazione dei criteri va effettuata seguendo i principi di buona fede e di correttezza e va effettuata nell’ambito dell’intero complesso produttivo. Fa, ovviamente, eccezione la chiusura o la ristrutturazione di un solo reparto aziendale, con la conseguenze che gli effetti si esauriscono in tale ambito (Cass., n. 25353/2009).

L’applicazione dei criteri di scelta può avvenire in ambito più ristretto in alcune ipotesi:

  1. quando è giustificato dalle esigenze tecnico – produttive ed organizzative che hanno determinato l’apertura della procedura (Cass., n. 6626/2011);
  2. quando, nel reparto non sussistano professionalità utilizzabili negli altri settori nei quali l’attività resta in vita (Cass., n. 9711/2011).

I criteri vanno contemperati tra di loro e la legge non prevede la prevalenza di uno sull’altro. C’è da osservare, però, che la Cassazione ha affermato come in caso di necessaria prevalenza di un determinato motivo, va privilegiato quello delle esigenze tecnico – organizzative che, peraltro, hanno determinato l’apertura della procedura collettiva di riduzione di personale.

Sul datore di lavoro, in caso di contestazione giudiziale, incombe l’onere della prova circa l’osservanza dei criteri di scelta (Cass., n. 6652/1997).

Il datore di lavoro non può licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata, con riguardo alle mansioni interessate. I licenziamenti dei lavoratori disabili (art. 10, commi 4 e 5, della legge n. 68/1999) sono annullabili qualora al momento del recesso il numero dei rimanenti lavoratori disabili sia inferiore alla quota di riserva.  In ogni caso il datore di lavoro è tenuto a darne comunicazione al servizio disabili competente entro 10 giorni, per la sostituzione del lavoratore con un altro avente diritto al collocamento obbligatorio.
I criteri di scelta sono richiamati dal Legislatore anche per il licenziamento di personale con qualifica dirigenziale, qualora inserito in una procedura collettiva di riduzione di personale: ad avviso di chi scrive, il riferimento normativo contenuto nell’art. 16 della legge n. 161/2014, appare ridondante, atteso l’aspetto estremamente fiduciario del rapporto. In ogni caso, la sentenza di condanna della Corte Europea di Giustizia, intervenuta nel mese di febbraio 2014, non aveva espressamente richiesto, di inserire i criteri di scelta relativamente al personale dirigente.

Riduzione di personale dopo la individuazione avvenuta in base ai criteri di scelta
Il licenziamento dei lavoratori va effettuato in forma scritta con il rispetto dei termini di preavviso.
Nei 7 giorni successivi (art. 1, comma 44, della legge n. 92/2012, che ha modificato il comma 9 dell’art. 4, della legge n. 223/1991 ove si adoperava l’avverbio “contestualmente”) il datore di lavoro deve inviare notizie sull’attuazione dei licenziamenti alla Regione (era, importante ai fini dell’iscrizione nelle liste di mobilità, cosa che non c’è più dal 2017),  ed ai sindacati di categoria di cui parla il comma 2.

Ci si chiede se la comunicazione all’Ente Regione (“rectius“, alla Commissione Regionale tripartita o all’Agenzia Regionale del Lavoro) conservi la propria validità in quanto la ragione per cui era prevista era quella di procedere alla iscrizione dei lavoratori nelle liste di mobilità, cosa che non è più possibile (per la fine dell’istituto) a partire dal 1° gennaio 2017.

In mancanza di chiarimenti normativi si consiglia di continuare ad effettuare la comunicazione indirizzandola a tutti i soggetti previsti dal Legislatore, per non incorrere in un vizio di natura formale.

La Cassazione (Cass., n. 18286/2017) ha affermato che l’obbligo dell’invio della comunicazione spetta anche ad un’impresa in procedura concorsuale con cessazione di attività, in quanto la comunicazione serve alle organizzazioni sindacali per valutare la legittimità dell’operato aziendale.

Impugnazione del licenziamento e violazione della procedura
Come negli altri casi, il licenziamento avvenuto al termine di una procedura collettiva di riduzione di personale può essere impugnato, con qualsiasi atto scritto, anche extra giudiziale, idoneo a rendere nota la volontà, indirizzato al datore di lavoro. L’impugnazione è inefficace se entro i successivi 180 giorni, non avviene il deposito del ricorso alla cancelleria del Tribunale del lavoro.

Per quel che concerne i casi di violazione della procedura, occorre ben tener presenti gli articoli 5, comma 3, della legge n. 223/1991 e 1, comma 46, della legge n. 92/2012, ma anche l’art. 10 del D.L.vo n. 23/2015 che, per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015, prevede, in caso di violazione dei criteri di scelta una indennità di natura economica legata all’anzianità aziendale maturata:

  1. mancanza della forma scritta: reintegra oltre ad una indennità risarcitoria commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegra, dedotto l’eventuale “perceptum”. La misura del risarcimento non può essere inferiore a 5 mensilità. Il datore di lavoro è tenuto al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo in cui il rapporto è stato interrotto. In alternativa alla reintegra, il lavoratore, entro 30 giorni dal deposito della sentenza o dall’invito del datore a riprendere servizio), può optare per una indennità pari a 15 mensilità che si somma alla precedente;
  2. inosservanza delle procedure di comunicazione preventiva, di consultazione sindacale e di comunicazione dell’elenco dei lavoratori licenziati: ciò può avvenire per carenza di comunicazione preventiva, di consultazione sindacale e di comunicazione dell’elenco dei lavoratori licenziati. La conseguenza di tale inosservanza è rappresentata, in caso di contenzioso, dalla risoluzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento, accompagnata da una indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, tenuto conto dell’anzianità del lavoratore. Il giudice deve tener conto di una serie di indicatori desumibili dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica dell’impresa, comportamento e condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione, comportamento tenuto complessivamente dalle parti durante la procedura). Tale indennità non riguarda i lavoratori assunti sotto la vigenza del D.L.vo n. 23/2015 per i quali sussiste soltanto l’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3, sulla quale ci sin tratterrà successivamente;
  3. violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare stabiliti nell’accordo sindacale o, in mancanza, di quelli previsti dall’art. 5: reintegra oltre ad una indennità risarcitoria commisurata sull’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso fino a quello della effettiva reintegrazione, dedotto ciò che il lavoratore ha percepito, durante l’assenza dal lavoro, per lo svolgimento di altre attività, nonché di quanto (c.d. “aliunde perceptum”) avrebbe potuto percepire cercando lavoro usando la propria diligenza. In ogni caso l’indennità non può superare le 12 mensilità. Il datore di lavoro è tenuto anche al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegra. In alternativa alla reintegra il lavoratore, entro 30 giorni dall’invito del datore a riprendere servizio o dal deposito della sentenza, può optare per una indennità sostitutiva alla reintegrazione pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 (fatta salva l’ipotesi in cui, con accordo sindacale, sia stata riconosciuta la stessa tutela degli altri lavoratori) non c’è la reintegra ma il datore di lavoro viene condannato dal giudice a corrispondere una indennità monetaria pari a 2 mensilità all’anno calcolate sull’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, partendo da una base di 4, fino ad un massimo di 24 mensilità, senza alcun potere discrezionale nella individuazione del “quantum”, atteso che il calcolo (compreso quello relativo alle mensilità all’interno dell’anno) lo fa l’art. 8. Nella sostanza, si tratta dello stesso trattamento economico previsto per i singoli lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa. Per completezza di informazione si ricorda che, per effetto di una ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale del settembre 2017 da parte del Giudice di Roma, pende, avanti alla Consulta, un giudizio di legittimità costituzionale relativo, tra le altre cose, all’art. 10 del D.L.vo n. 23/2015;
  4. violazione della procedura e dei criteri di scelta relativi ai dirigenti: l’impresa o il datore di lavoro non imprenditore (art. 16 della legge n. 161/2014) è tenuto al pagamento in favore del dirigente di una indennità in misura compresa tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura ed alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell’indennità contenute nei contratti collettivi applicati al rapporto di lavoro;
  5. Il datore di lavoro può licenziare un numero di lavoratori pari a quelli reintegrati, nel rispetto dei criteri di scelta, senza dover aprire una nuova procedura di riduzione di personale: a fronte di ciò ha l’obbligo di comunicarlo alla propria rappresentanza sindacale aziendale (art. 17 della legge n. 223/1991).

Per completezza di informazione si ritiene doveroso segnalare recenti decisioni della Magistratura in relazione ai criteri di scelta.

La Suprema Corte, ad esempio, con la sentenza n. 24352/2017 ha affermato che la vera garanzia che tutela i lavoratori coinvolti in un licenziamento collettivo è quella procedimentale. Da ciò ne discende che è onere del datore comunicare sia il criterio di selezione che le modalità seguite per la sua attuazione: queste non possono essere generiche e ripetitive, ma specifiche.
La Cassazione ha affrontato anche la questione relativa al “restringimento” della scelta dei lavoratori da licenziare ai soli addetti ad uno specifico ramo od unità produttiva: ciò è possibile (Cass., n. 20335/2017) a condizione che tale intenzione risulti dalla comunicazione con la quale si è aperta la procedura. Se ciò è avvenuto ed è stato ben esplicitato la platea si può restringere soltanto ai dipendenti “con particolari mansioni” purchè, appunto, sussista la correlazione tra la comunicazione e l’applicazione dei criteri di scelta. In caso di contenzioso grava sul datore l’onere di provare la piena applicazione dei criteri, mentre sta al lavoratore licenziato dimostrare la illegittimità della scelta e indicare  nei confronti di chi essa si sarebbe dovuta realizzare.

Ma, un criterio che dovesse individuare i lavoratori che non hanno  aderito ad una offerta di ricollocazione presso altri datori di lavoro, è legittima? Secondo la Cassazione (Cass., n. 25188/2017) no, in quanto tale criterio non è assolutamente obiettivo, in quanto lascia al datore di lavoro la discrezionalità di offrire la ricollocazione presso altre aziende soltanto ad alcuni lavoratori e non ad altri.
Il ticket licenziamento “maggiorato”
Con il comma 137 dell’art. 1 della legge n. 205/2017 aumenta, notevolmente, l’importo del contributo di ingresso alla NASPI le imprese, rientranti nel campo di applicazione della CIGS, che licenziano proprio personale al termine della procedura collettiva di riduzione di personale, che debbono pagare dal 1° gennaio 2018. Esse sono individuate, come settori interessati, nell’art. 20 del D.L.vo n. 148/2015: ad esse occorre aggiungere le compagnie aeree e le società di gestione aeroportuale, i partiti ed i movimenti politici che, a prescindere dai limiti dimensionali, sono destinatari, per il loro personale, degli interventi della integrazione salariale straordinaria

Non rientrano tra i destinatari i datori di lavoro che abbiano aperta la procedura entro il 20 ottobre 2017, pur se la stessa termina nel corso del 2018.

Ma, come avviene, in concreto, l’aumento?

La norma prevede che l’aliquota percentuale, fissata dall’art. 2, comma 31, della legge n. 92/2012, passi dal 41% del massimale NASPI all’82% (nel 2018 l’importo massimo del contributo rapportato ad una anzianità aziendale di almeno 36 mesi è pari a 1.486, 02, essendo quella mensile pari a 41,28 euro e quella annuale 495,34 euro).

Tale novità si cala sulla previsione contenuta nel comma 35 dell’art. 2 della legge n. 92/2012 secondo la quale dal 2017, in sostituzione del vecchio contributo di ingresso alla mobilità, si stabilisce che nei licenziamenti collettivi effettuati senza accordo sindacale, l’importo del contributo di ingresso alla NASPI sia moltiplicato per 3, mentre resta fisso ad una mensilità in presenza di accordo.
Cosa significa tutto questo?

Significa che in caso di mancato accordo al termine della procedura di riduzione collettiva di personale il contributo di ingresso alla NASPI sarà pari a 8.892,12 euro per ogni lavoratore licenziato con una anzianità aziendale pari o superiore ad almeno tre anni, mentre qualora si sia registrato il consenso sindacale l’importo sarà pari a 2.972,04: ovviamente se l’anzianità aziendale è inferiore, saranno minori le somme da pagare: esse debbono essere versate, in un’unica soluzione, entro il 16 del mese successivo al licenziamento. Il mancato versamento soggiace alla ordinaria disciplina sanzionatoria prevista in materia di contribuzione obbligatoria.

Il ticket “raddoppiato” è, ovviamente, dovuto anche se il datore di lavoro ha sbagliato la procedura o se ha licenziato in un arco temporale di 120 giorni almeno cinque lavoratori, atteso che il licenziamento si considera collettivo.

Una breve riflessione si rende necessaria.

Se si prende in considerazione l’esempio appena fatto (lavoratore con una anzianità pari o superiore ai 36 mesi, ci si accorge che la somma da pagare (8.892,12 euro) è, nella sostanza, abbastanza vicina a quella che, fino al 31 dicembre 2016 si versava per il contributo di mobilità, in assenza di accordo sindacale, che, pari a 9 mensilità, risultava essere di 9.065 euro, che, però, erano “onorabili” in 30 rate mensili. Ovviamente, la contribuzione risulta essere particolarmente pesante se raffrontata a quella in essere nel corso del 2017.
Come si diceva, la maggiorazione del contributo di ingresso non riguarda quelle imprese che non rientrano nel campo di applicazione della CIGS. Esse sono quelle che, mediamente, non occupano più di 50 dipendenti, compresi i dirigenti e gli apprendisti, come le imprese esercenti attività commerciali, comprese quelle della logistica e le agenzie di viaggio, compresi gli operatori turistici.

Resta il dubbio se nel campo di applicazione rientrino le aziende che fanno ricorso la Fondo di integrazione salariale no ai Fondi alternativi di cui parlano gli articoli 26 e seguenti del D.L.vo n. 148/2015: si ritiene di no, in base al puro dettato letterale della norma, ma qui appare opportuno attendere chiarimenti dal Ministero del Lavoro o dall’INPS.

E’ appena il caso di sottolineare come il contributo di ingresso alla NASPI resti invariato in caso di licenziamenti individuali, a prescindere dalla motivazione, di recessi dal rapporto di apprendistato o dal contratto intermittente a tempo indeterminato.

Licenziamento collettivo e sospensione degli obblighi occupazionali
L’art. 5 della legge n. 68/1999 prevede che in caso di procedura collettiva di riduzione di personale, gli obblighi occupazionali postulati dalla legge n. 68/1999 vengano sospesi per tutto il periodo di durata dell’iter (75 giorni, al massimo, in cui il “dies a quo” è rappresentato dall’invio della comunicazione iniziale da parte dell’imprenditore). Se la procedura si è conclusa con almeno 5 licenziamenti, la sospensione (che per interpretazione amministrativa e per orientamento giurisprudenziale, si riverbera su tutto il territorio nazionale ove insistono le varie unità produttive dell’azienda interessata) si protrae fino a quando l’ultimo lavoratore licenziato può esercitare il proprio diritto di precedenza alla riassunzione (6 mesi, per effetto dell’art. 15, comma 6, della legge n. 264/1949). Ovviamente, nell’accordo sindacale i licenziamenti possono anche essere dilazionali nel tempo (ad esempio, entro 12 mesi dalla chiusura della stessa): ciò può portare ad una forte diluizione nel tempo degli obblighi occupazionali.


9 Marzo 2018


Fonte : Dottrina Lavoro