Il licenziamento individuale del dirigente nel settore privato (ma farò un breve cenno anche al recesso a seguito di una procedura collettiva di riduzione del personale) segue alcune regole specifiche che lo differenziano, totalmente, da quello del settore pubblico, governato dalla procedura inserita all’interno del D.L.vo n. 165/2001, recentemente modificato, soprattutto per la parte disciplinare, dai Decreti Legislativi n. 116/2016 e n. 118/2017, rispetto alla quale, in caso di contenzioso, la competenza giurisdizionale è, comunque, del giudice del lavoro. Per la verità, nel settore pubblico tale competenza non è assolutamente esclusiva, atteso che, per particolari categorie (Magistrati, appartenenti alla carriera prefettizia e diplomatica, Forze Armate e di Polizia, ecc.), è il giudice amministrativo che si trova a decidere in materia (art. 63, comma 1, del D.L.vo n. 165/2001).
Tornando al dirigente privato va, subito, sottolineato come, in generale, non trovi applicazione nei confronti dello stesso, la normativa di tutela prevista in caso di licenziamento illegittimo dal D.L.vo n. 23/2015 (che, all’art. 1, parla soltanto di operai, impiegati e quadri) o, parzialmente, dall’art. 18 della legge n. 300/1970 il quale, peraltro, si applica nei casi di nullità per motivo discriminatorio, illecito (ingiusta ed arbitraria reazione dell’imprenditore ad un comportamento legittimo, con onere della prova a carico del dirigente) o nelle altre ipotesi tutelate dal Legislatore (ad esempio, periodo “protetto” della maternità): tutto ciò comporta oltre alla reintegra anche il risarcimento del danno. Ovviamente, questa è la regola generale: se, però, nel contratto individuale si fosse fatto riferimento alla tutela reintegrativa nel suo complesso in caso di recesso illegittimo (caso rarissimo), questa sarebbe applicabile dal giudice di merito (Cass., 20 settembre 2016, n. 19554).
Fatta questa breve premessa entro nel merito ricordando che le norme di riferimento si trovano, essenzialmente, nel codice civile (articoli 2118 e 2119 c.c.), nell’art. 3 della legge n. 108/1990 (il recesso deve avvenire per iscritto) e, per il resto, nella contrattazione collettiva del personale dirigenziale ove viene richiesta la motivazione.
L’ipotesi declinata dall’art. 2119 c.c. è quella della giusta causa che, per il dirigente, trova il proprio fondamento in un comportamento lesivo del vincolo fiduciario tale da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto (Cass., 24 aprile 2007, n. 9865) o, ad esempio, in atti denigratori nei confronti di colleghi o del proprietario, con atteggiamenti di minaccia e di insubordinazione. Ovviamente, in caso di contenzioso, il dirigente può chiedere al giudice, nel caso in cui rilevi la infondatezza della motivazione, il pagamento dell’indennità supplementare, disciplinata dal contratto collettivo, che da un “minimum” di base, si incrementa progressivamente in relazione all’anzianità di servizio maturata.
Ma, il dirigente può essere licenziato, attivando l’art. 2118 c.c. per giustificato motivo, con il riconoscimento del periodo di preavviso. Qui, “entra il ballo” la nozione di “giustificatezza” prevista dal CCNL, che è diversa da quella che discende dall’art. 3 della legge n. 604/1966 ove si parla, come appena detto, di giustificato motivo (soggettivo od oggettivo).
Tale motivazione appare molto più ampia in quanto strettamente correlata, per l’aspetto soggettivo, al rapporto fiduciario che lo lega all’impresa in ragione del compito lui affidato che è quello della realizzazione degli obiettivi datoriali: da ciò discende che anche una semplice inadeguatezza rispetto anche ad aspettative riposte nel dirigente in base a valutazioni avvenute anche prima della costituzione del rapporto, possono portare alla rottura del vincolo fiduciario (Cass., 11 giugno 2008, n. 15496).
Sul piano oggettivo, prosegue sempre la Cassazione, la stessa posizione assegnata al dirigente nella organizzazione dell’impresa può divenire, nel tempo, non adeguata alle strategie aziendali e, quindi, il licenziamento può essere giustificato sotto l’aspetto legato ad un miglior posizionamento dell’impresa sul mercato.
Quanto appena detto porta ad una diretta considerazione: fatti e comportamenti che, rapportati alla totalità dei lavoratori, non integrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo, possono portare a ritenere giustificato il licenziamento del dirigente, in quanto viene meno il c.d. “rigore” del recesso, perché è sufficiente un qualsiasi ragionevole motivazione, apprezzabile in diritto, e tale da ledere il legame di fiducia (Cass., 18 marzo 2014, n. 6230).
La differenza tra un licenziamento per giustificato motivo di un lavoratore e di un dirigente traspare anche dalla diversa situazione relativa al c.d. “repechage”: nel primo caso, anche tenendo conto degli obblighi scaturenti per il datore di lavoro dalle novità introdotte con l’art. 2103 c.c., come modificato dall’art. 3 del D.L.vo n. 81/2015, l’imprenditore deve dimostrare l’impossibilità di adibire il dipendente in una posizione lavorativa, anche inferiore. Nel secondo, invece, pur in presenza di una ristrutturazione aziendale, la libera recedibilità datoriale trova un sostegno nella stessa posizione lavorativa del dirigente.
Una questione che va affrontata e risolta riguarda l’applicabilità al licenziamento per giustificato motivo oggettivo della procedura obbligatoria prevista, in via generale, per tutti i dipendenti assunti dalle imprese dimensionate oltre le 15 unità, prima del 7 marzo 2015, dall’art. 7 della legge n. 604/1966, modificato dal comma 40 dell’art. 1 della legge n. 92/2012.
Il Ministero del Lavoro, anche con la circolare n. 3/2013, ha escluso, sulla scorta di pareri dottrinari, tale possibilità. Ciò ha una diretta conseguenza ai fini della fruizione della NASPI, sulla quale mi soffermerò tra un attimo, in quanto il dirigente in tanto ne ha diritto, in quanto sia in possesso dei requisiti previsti dall’art. 3 del D.L.vo n. 22/2015 e in quanto sia stato licenziato: se il rapporto si è risolto consensualmente non può fruire del trattamento in quanto tale risoluzione non è avvenuta (né poteva avvenire) avanti alla commissione provinciale di conciliazione istituita presso l’Ispettorato territoriale del Lavoro, ai sensi e con le modalità previste dal predetto art. 7.
Il licenziamento del dirigente può, ovviamente, avere anche una natura disciplinare: in questo caso va attivato, come per gli altri lavoratori, il procedimento di garanzia previsto dall’art. 7 della legge n. 300/1970. La questione fu, definitivamente, chiarita dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 7880 del 30 marzo 2007, le quali sottolinearono, dopo un periodo di incertezza che aveva dato luogo a decisioni difformi, che la diversa posizione lavorativa del dirigente non giustificava alcuna differenza sotto l’aspetto delle garanzie procedimentali previste dal Legislatore per tutti i dipendenti.
“ Le garanzie procedimentali, osserva la Suprema Corte con le decisioni n. 7880 del 30 marzo 2007 e n. 5175 del 16 marzo 2015, dettate dai commi 2 e 3 dell’art. 7, devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia”. Di qui, discende la necessità della contestazione dell’addebito che deve essere preciso, puntuale ed immodificabile (come, ad esempio, il mancato raggiungimento degli obiettivi commerciali) con possibilità per i dirigente di essere sentito, a difesa, con l’assistenza di un rappresentante sindacale. Una ulteriore ipotesi di licenziamento disciplinare, delineato dalla Cassazione con la sentenza n. 15204 del 20 giugno 2017, riguarda il caso in cui la proprietà addebiti al dirigente un comportamento negligente e colpevole, sia pure in senso lato.
Il licenziamento disciplinare irrogato in violazione di garanzie procedimentali è nullo in quanto contrario a norme imperative (art. 1418 c.c.) e comporta l’applicazione delle conseguenze fissate dal contratto collettivo di categoria per il licenziamento privo di giustificazione: da ciò discende l’obbligo di corrispondere l’indennità di preavviso e l’indennità supplementare.
L’impugnazione del licenziamento da parte del dirigente che ritenga di dover ricorrere in giudizio sottostà alle condizioni ed ai limiti fissati dai commi 1 e 2 dell’art. 32 della legge n. 183/2010: essa deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dal ricevimento della comunicazione, con qualsiasi atto scritto, giudiziale o extra giudiziale, idoneo a rendere nota al datore di lavoro la propria volontà. Nei 180 giorni successivi, pena l’inefficacia dell’impugnazione, deve essere depositato il ricorso che, tuttavia, in caso di “fallimento del datore di lavoro” va devoluto alla competenza del giudice fallimentare (Cass., 24 ottobre 1996, n. 9306), in quanto l’accertamento della ingiustificatezza del recesso ha carattere strumentale rispetto a ciò che richiede l’interessato (indennità supplementare prevista dal CCNL).
L’alternativa al ricorso giudiziale, come ben chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 1463 dell’11 febbraio 1987, è rappresentata dal ricorso ad un collegio arbitrale che nei due CCNL per dirigenti più importanti, quello dell’industria e quello del terziario, è disciplinato, rispettivamente, dagli articoli 19 e 34.
La facoltà di ricorrere al Collegio arbitrale non riguarda tutti i dirigenti: infatti, l’art. 22 del CCNL industria, non lo consente a coloro che hanno diritto alla pensione di vecchiaia o che hanno compiuto i 67 anni.
La procedura prevede la presentazione di una richiesta con lettera raccomandata A/R alla propria associazione sindacale che, nei 30 giorni successivi, trasmette copia dell’istanza al Collegio della controversia, informando, ovviamente, anche il datore di lavoro.
Il Collegio opera nel rispetto di alcuni limiti temporali:
30 giorni dal ricevimento dell’istanza per la prima riunione, con la convocazione delle parti per esperire il tentativo di conciliazione;
60 giorni, dalla prima convocazione, per l’emissione del lodo se il tentativo di conciliazione non ha avuto effetto.
Se la decisione arbitrale rileva l’infondatezza delle motivazioni addotte dall’azienda per giustificare il licenziamento, il datore di lavoro viene “condannato” a pagare al dirigente una indennità supplementare che è graduata in relazione all’anzianità aziendale (CCNL industria) e all’anzianità aziendale ed all’età anagrafica (CCNL terziario).
Per ben comprendere l’entità delle somme da corrispondere ritengo opportuno indicare gli importi partendo dall’art. 19 del CCNL industria ove le mensilità sono pari al corrispettivo del preavviso:
fino a 2 anni di anzianità aziendale, 2 mensilità;
oltre i 2 anni e fino a 6 anni di anzianità, da 4 a 8 mensilità;
oltre i 6 anni e fino a 10 anni di anzianità, da 8 a 12 mensilità;
oltre i 10 anni e fino a 15 anni di anzianità, da 12 a 18 mensilità;
oltre i 15 anni di anzianità da 18 a 24 mensilità.
L’art. 34 del CCNL terziario prevede che l’indennità supplementare sia graduabile in relazione alla anzianità aziendale nel modo seguente:
fino a 4 anni, da 4 ad 8 mensilità;
oltre i 4 anni e fino a 6, da 6 a 12 mensilità;
oltre i 6 anni e fino a 10, da 8 a 14 mensilità;
oltre i 10 anni e fino a 15, da 10 a 16 anni di mensilità;
oltre i 15 anni, da 12 a 18 mensilità.
In caso di licenziamento di un dirigente con una anzianità aziendale superiore a 12 anni, l’indennità è aumentata in relazione all’età. Le maggiorazioni sotto riportate possono essere applicate dal Collegio in favore dei dirigenti non in possesso dei requisiti per accedere al trattamento pensionistico, con prova della posizione previdenziale a carico del dirigente:
tra i 50 ed i 55 anni compiuti: 4 mensilità;
tra i 56 ed i 61 anni compiuti: 5 mensilità;
tra i 61 anni e l’età prevista per il pensionamenti di vecchiaia: 6 mensilità.
Dal 25 novembre 2014, per effetto dell’art. 16 della legge n. 161/2014 che ha recepito nel nostro ordinamento la sentenza della Corte Europea di Giustizia n. C- 596/12 del 13 febbraio 2014 la quale aveva ritenuto la nostra normativa il contrasto con la Direttiva CE n. 98/59, la normativa sui licenziamenti collettivi di riduzione di personale si applica anche ai datori di lavoro che intendano procedere al licenziamento di uno o più dirigenti con alcune limitazioni e specificità che riguardano, essenzialmente, la procedura, nel senso che sia l’esame congiunto in sede sindacale che in sede amministrativa deve avvenire in appositi incontri con l’organizzazione sindacale di rappresentanza dei dirigenti, magari separati da quelli con le altre organizzazioni sindacali se la procedura riguarda anche altri lavoratori.
In caso di violazione della procedura o dei criteri di scelta, a cosa va incontro il datore di lavoro?
Il nuovo articolo 5, comma 3, della legge n. 223/1991 afferma che l’imprenditore è tenuto al pagamento di una indennità compresa tra 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con riguardo alla natura ed alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni contrattuali e degli accordi collettivi applicati la rapporto di lavoro.
Come ben si vede la tutela è solamente economica ed è diversa da quella prevista per gli altri dipendenti la quale, peraltro, è differente a seconda che il lavoratore sia stato assunto entro il 6 marzo 2015 o dopo.
Nella prima ipotesi, in caso di violazione dei criteri di scelta il giudice ordina la reintegra con il pagamento della retribuzione e della contribuzione fino al momento della effettiva ripresa dell’attività lavorativa, con possibilità per il lavoratore interessato di rinunciare al posto di lavoro attraverso l’esercizio del c.d. “opting out”, previo pagamento di 15 mensilità.
Nella seconda, ove salvo diversi accordi, operano le c.d. “tutele crescenti” del D.L.vo n. 23/2015, l’art. 10 afferma che, si applica l’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3 (2 mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR, partendo da una base di 4, fino ad un massimo di 24 mensilità).
Da ultimo, un breve cenno alla fruizione della NASPI, destinata ad integrare le indennità di natura contrattuale previste in caso di licenziamento.
Anche il dirigente, come tutti gli altri lavoratori, che hanno perso involontariamente il posto di lavoro hanno diritto al trattamento di NASPI se in possesso dei requisiti essenziali previsti dall’art. 3 del D.L.vo n. 22/2015:
stato di disoccupazione con dichiarazione di immediata disponibilità ex art. 19 del D.L.vo n. 150/2015;
almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione;
almeno 30 giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei 12 mesi antecedenti l’inizio del periodo di disoccupazione.
La NASPI (art. 4 ) è rapportata alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi 4 anni, divisa per il numero di settimane di contribuzione e moltiplicata per un coefficiente pari a 4,33, con un tetto, rivalutato annualmente, fissato, ad oggi, al 75% della retribuzione mensile, qualora la stessa sia pari od inferiore a 1.195 euro. Se superiore (e tale sarà, senz’altro, quella dell’ex dirigente) l’importo viene incrementato di una somma pari al 25% della differenza tra la retribuzione mensile ed il predetto importo di 1.195 euro, con un tetto, al momento non superabile, rappresentato da 1.300 euro.
Essa viene riconosciuta per 2 anni ma si riduce del 3% ogni mese a partire dal quarto mese di fruizione.