Ripescaggio e Licenziamento: obblighi del datore di lavoro

Allorquando le parti si trovano avanti al giudice del lavoro per discutere in ordine ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore è tenuto a dimostrare, oltre alla legittimità dei motivi che hanno condotto al recessi, anche la prova della non utilizzabilità del lavoratore in altre mansioni, analoghe a quelle svolte in precedenza.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità si è sbizzarrita ad indicare una serie di verifiche che l’imprenditore deve mettere in atto prima di procedere al recesso che deve essere inteso quale “ultima ratio”.

Doveri del datore di lavoro sul ripescaggio
Con una recentissima ordinanza, la n. 31561/2023, la Cassazione fissa la propria attenzione sul fatto che l’attività di “ripescaggio” non si deve limitare ad esaminare situazioni strettamente correlate alle mansioni svolte dal lavoratore, ma essa deve essere, per così dire, più penetrante valutando anche assunzioni, immediatamente successive al licenziamento, per mansioni diverse ma riferibili al livello della stessa categoria legale di inquadramento (era stata licenziata una cassiera per soppressione della cassa ed erano stati assunti lavoratori di pari livello, addetti ai servizi ai tavoli). La Corte non si spinge ad affermare che il lavoratore doveva essere impiegato nelle mansioni diverse dello stesso livello, perché, nella sostanza, fungibili, ma sostiene che la classificazione contrattuale ha una propria specifica rilevanza ai fini delle valutazioni datoriali.

Le modifiche introdotte, attraverso l’art. 3 del D.L.vo n. 81/2015, all’art. 2103 del codice civile, hanno, indubbiamente, fornito all’imprenditore un maggior ambito di flessibilità, rendendo più agevole il cambio delle mansioni, ma hanno ristretto i margini riguardanti il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Ma, andiamo con ordine ad esaminare i passaggi normativi dell’art. 2103 c.c..

Norme previste
Il primo comma dispone che “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”.

È, appunto, sull’ultimo periodo del comma che si accentra l’attenzione della Cassazione. Il datore, per ritenere legittimo il licenziamento, deve dimostrare di aver considerato anche mansioni diverse appartenenti allo stesso livello (mobilità orizzontale per la quale non è necessario né il consenso dell’interessato, né l’accordo sindacale) e di aver deciso, con valutazioni probanti, che ciò non era possibile.

Anche il secondo, il terzo ed il quinto comma del 2103 c.c. vanno, poi, considerati: essi affermano che “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore (la soppressione di un posto di lavoro rientra in tale casistica), lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”.

Mutamento di norme e mansioni
Il mutamento di mansioni (comma 3) comporta, ove necessario, l’assolvimento di un obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina la nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni. Il lavoratore (comma 5) ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa (si può pensare, ad indennità di rischio, di cassa, ecc.). Ovviamente, al dipendente vanno corrisposte le eventuali indennità riferibili alle nuove mansioni svolte.

Ma, cosa può, quindi, succedere se il datore non ha effettuato le valutazioni sopra riportate e non si è avvalso, pur avendone la possibilità, di utilizzare la previsione del comma 2?

La questione appare decisiva e può avere effetti sulla legittimità del licenziamento (con le conseguenze previste, a seconda dei casi, dall’art. 18 della legge n. 300/1970 o dal D.L.vo n. 23/2015 per i lavoratori assunti a partire dal 7 maggio 2015) nel caso in cui, sulla scorta di considerazioni oggettive, il datore non riesca a provare l’impossibilità del “ripescaggio”.

Soluzioni antecedenti al licenziamento
C’è, poi, un’altra possibilità di soluzione della questione che attiene, però, alla fase antecedente il licenziamento: mi riferisco al comma 6 dell’art. 2103 c.c. allorquando, con il consenso delle parti, è possibile stipulare accordi individuali, finalizzati alla conservazione dell’occupazione, con i quali possono essere modificati mansioni, categoria legale, livello di inquadramento e retribuzione. Il tutto deve avvenire nelle sedi che garantiscono la inoppugnabilità (ad esempio, sede sindacale, commissione di conciliazione istituita presso ogni Ispettorato territoriale del lavoro, commissioni di certificazione presso gli ordini provinciali dei consulenti del lavoro, commissioni di certificazione presso le Università o le Fondazioni Universitarie accreditate, ecc.): il lavoratore può farsi assistere dal proprio rappresentante sindacale, da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Da ultimo, ricordo che al fine di evitare licenziamenti, con accordo sindacale raggiunto durante una procedura collettiva di riduzione di personale, l’art. 4, comma 11 della legge n. 223/1991, prevede un riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedentari che possono essere adibiti a mansioni diverse da quelle svolte.


28 Novembre 2023


Fonte : Dottrina Lavoro