La Corte di Cassazione ha affermato la ammissibilità della ripetizione del patto di prova pur se il lavoratore ha avuto altri rapporti con il proprio datore, qualora risulti dimostrata l’esigenza dell’imprenditore di effettuarne un’ulteriore verifica.
Una recente decisione della Corte di Cassazione, la n. 22809 del 12 settembre 2019, offre lo spunto per una disamina relativa al patto di prova (art. 2096 c.c.) che può essere inserito per iscritto dalle parti nel costituendo rapporto di lavoro e prima che abbia inizio: esso che, giuridicamente, si pone come una condizione sospensiva potestativa, può essere inteso come un periodo nel quale viene valutata la reciproca convenienza a rendere definitivo il rapporto stesso.
Prima di entrare nel merito delle varie questioni ritengo necessario focalizzare l’attenzione su quanto la Suprema Corte ha affermato con la decisione sopra indicata: la ripetizione del periodo di prova all’atto della stipula di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, pur in presenza di precedenti rapporti a termine relativi alle medesime mansioni, viene considerata legittima se il datore di lavoro riesce a dimostrare, avanti al giudice di merito, che era assolutamente necessaria una verifica ulteriore circa il comportamento del lavoratore e l’effettivo stabile inserimento nell’organizzazione aziendale. La verifica deve essere rilevante ai fini dell’adempimento della prestazione, cosa che può concernere alcune situazioni personali del lavoratore correlate sia alle abitudini di vita che ai problemi di salute “elementi suscettibili di modifiche nel corso del tempo”, come ricorda la stessa Corte con la sentenza n. 10440 del 22 giugno 2012.
Di conseguenza, deve sussistere una specifica e valida motivazione: sulla stessa linea si pone, a mio avviso, la Corte di Appello di Roma che con la decisione del 23 giugno 2017 ha affermato che la stipula di un ulteriore patto di prova con lo stesso prestatore, successivo ad altro contratto di lavoro, è nulla per difetto di causa se la verifica (che è ciò che chiedono i giudici della Cassazione) era, nella sostanza, intervenuta con esito positivo per le medesime mansioni e per un periodo di tempo consistente. Altra ipotesi di nullità della prova è ravvisabile nella ipotesi in cui pur essendo ben esplicitate le mansioni di riferimento, durante tale periodo, il lavoratore sia stato utilizzato in compiti e mansioni del tutto diverse.
Il patto di prova è apponibile a qualunque tipologia contrattuale per la durata e secondo le previsioni indicate dalla contrattazione collettiva con finalità che sono, parzialmente, diverse in relazione alla finalità della stessa.
Nell’apprendistato professionalizzante, ad esempio, l’oggetto della prova non può, evidentemente, essere quello correlato alla capacità di svolgere la futura qualificazione che è il fine da raggiungere al termine del periodo formativo, ma la “propensione” e l’attitudine a svolgere l’attività lavorativa. Anche nel contratto a tempo determinato l’apposizione di un patto di prova è legittima secondo la previsione del CCNL che, in genere, prevede un periodo più breve rispetto al contratto a tempo indeterminato. Se quest’ultimo nulla dice, a mio avviso, l’apposizione non può essere pari alla durata del contratto a termine, venendo meno la funzione specifica dell’istituto.
Un discorso del tutto analogo ai contratti a tempo indeterminato va fatto per le prestazioni di lavoro a tempo parziale ed indeterminato: la previsione del patto di prova è possibile secondo la durata prevista dal contratto collettivo applicato, ma va, necessariamente, ricollegata in relazione allo specifico orario di lavoro osservato.
L’individuazione di un periodo di prova è possibile anche nella somministrazione sia a tempo indeterminato che a termine: le condizioni ed i limiti sono quelli previsti dal CCNL applicato dall’utilizzatore.
Anche il lavoro intermittente può essere soggetto ad un periodo di prova, pur se la stessa tipologia lavorativa ove l’effettuazione della prestazione dipende dalla “chiamata” del datore di lavoro e dalla accettazione del lavoratore, in assenza della corresponsione di una indennità di disponibilità, pongono la questione su un piano molto secondario: qualora la si voglia apporre, la stessa dovrà essere rapportata ad un numero di giornate di effettivo lavoro.
Il patto di prova può, evidentemente, prestarsi, in alcune situazioni contingenti, ad abusi ed il mancato superamento dello stesso può comportare alcune conseguenze sul piano burocratico amministrativo.
Cerco di spiegarmi meglio, dando un certo ordine a ciò che ho appena affermato.
E’ apponibile il patto di prova al contratto di un portatore di handicap avviato obbligatoriamente?
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 255/1989 ritenne infondata la questione di legittimità costituzionale della allora vigente legge n. 482/1968 sottolineando che il rapporto di lavoro non si costituiva ex lege, ma seguiva le regole di un normale contratto di lavoro nel quale poteva ben essere previsto un patto di prova.
Su tale solco della Consulta si è inserita, già sotto l’imperio della vecchia legge (ora, sostituita dalla legge n. 68/1999) stabilendo che l’oggetto del patto doveva essere limitato alla residua capacità lavorativa del disabile ed a mansioni compatibili con lo stato di invalidità. Nel corso degli anni alcuni concetti si sono “affinati” e la Suprema Corte ha fornito una ulteriore risposta positiva con “alcuni paletti”, sottolineando (Cass. n. 16390/2017) che l’eventuale risoluzione del rapporto al termine del periodo di prova ad opera del datore di lavoro deve essere supportata da “ragioni serie ed oggettive che non ne hanno consentito il superamento, indipendentemente da qualsiasi valutazione della minorazione dell’invalido”: spetta, poi, all’interessato dimostrare in giudizio le prove della illegittimità dovuta a motivi illeciti e/o discriminatori.
Il patto di prova, oltre ad essere messo per iscritto, deve contenere le specifiche mansioni di adibizione non essendo possibile un qualsiasi riferimento “per relationem” al dettato contrattuale: la stessa Corte, con la sentenza n. 16587/2017, ha ritenuto nulla, in conformità a quanto deciso dalla Corte di Appello, la clausola ed ha affermato come il rapporto con il disabile, sin dall’inizio, fosse a tempo indeterminato e, quindi, “protetto” dalla c.d. “tutela reale”.
Da quanto appena detto discende, quindi, che il datore di lavoro può ben inserire un patto di prova, che le mansioni debbono essere specificatamente dettagliate, che le stesse debbono tener in debito conto la disabilità psico-fisica del lavoratore, e che la prova non deve essere “capziosa” finalizzata, unicamente, ad aggirare le disposizioni relative al collocamento obbligatorio: solo nel rispetto di tali condizioni il recesso può risultare valido e, quindi, essere espressione della c.d. “libera recedibilità”.
Ma in caso di licenziamento illegittimo durante il periodo di prova, quali possono essere le conseguenze?
Fatto salvo il caso della nullità del patto cosa che, come detto, comporta la nullità della condizione apposta con la conseguenza che il contratto risulta essere a tempo indeterminato sin dall’inizio, non è possibile una costituzione “coattiva” del rapporto ma, come ricorda la Cassazione con la sentenza n. 21965/2010, può ben riconoscersi il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno secondo i principi fissati dall’art. 1223 c.c., tenendo conto delle utilità economiche che lo stesso avrebbe percepito ove il recesso non fosse stato determinato da finalità illecite o fraudolente e l’esperimento avesse avuto un proprio regolare “excursus”.
Ovviamente, i principi ora enunciati, sia pure in termini meno stringenti, sono applicabili anche ad una normale risoluzione di contratto a tempo indeterminato dovuta al mancato superamento della prova. Sub tale punto, la Consulta, con la sentenza n. 189/1980, pur riaffermando la legittimità del periodo di prova, ritenne necessaria, ai fini della legittimità, una completa valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore.
Passo, ora, ad esaminare un’altra questione: ho, infatti, fatto cenno, pocanzi, a “conseguenze burocratico amministrative” connesse al mancato superamento del periodo di prova in un contratto a tempo indeterminato.
Di cosa si tratta?
La legge n. 205/2017 all’art. 1, commi 100 e seguenti, prevede un beneficio, sotto forma di sgravio contributivo sulla quota a carico del datore di lavoro, per tre anni, fino ad un massimo di 3.000 euro all’anno, con esclusione dei contributi e premi INAIL (e di altra contribuzione c.d. “minore”) in favore di chi assume a tempo indeterminato giovani di età fino a 29 anni e 364 giorni che non hanno mai avuto, nella loro vita, un precedente contratto a tempo indeterminato. Tale possibilità è prevista, per gli anni 2019 e 2020, anche per i soggetti di età inferiore ai 35 anni ma, per questi ultimi, tutto è rimandato ad un D.M. del Ministro del Lavoro, di “concerto” con quello dell’Economia, che doveva essere emanato entro il 12 ottobre 2018 e che doveva stabilire le modalità di fruizione: tale provvedimento, non ha ancora visto la “luce” e, quindi, i benefici per le assunzioni di tali ultimi lavoratori indicati non sono attivi (probabilmente, stando al disegno di legge di bilancio per l’anno 2020, si dovrebbe trovare una soluzione interpretativa che “by-passi” l’emanazione del D.M. “concertato”).
Ebbene, per quel che interessa il tema oggi affrontato (il patto di prova), l’INPS con la circolare n. 40/2018, ha affermato che il beneficio sopra riportato non spetta a quei datori di lavoro che intendano assumere un soggetto il quale, nella propria vita lavorativa, non ha mai avuto un rapporto stabile a tempo indeterminato ma che risulta essere stato licenziato per mancato superamento del periodo di prova apposto ad una tipologia contrattuale subordinata a tempo indeterminato.
Ora, a me sembra che tale posizione pecchi di soverchia rigidità atteso che, molte volte, (ahimè, soprattutto nel collocamento dei portatori di handicap) i datori di lavoro risolvono il rapporto durante la prova in modo surrettizio e capzioso e, comunque, in un momento in cui il Legislatore offre la possibilità di un recesso “ad nutum”. Nella sostanza, può accadere che si tolga una possibilità di una assunzione incentivata ad un soggetto che non ha avuto, mai, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato stabile e che, per sua “sfortuna”, è stato licenziato dopo pochissimi giorni.