Il “Decreto Dignità” ha reso difficile il ricorso ai contratti a tempo determinato oltre la soglia dei dodici mesi, così gli operatori si adattano a forme legali di aggiramento della disposizione che in alcuni punti risulta lacunosa.
Le causali “legali” introdotte con il c.d. “Decreto Dignità” hanno reso difficile il ricorso ai contratti a tempo determinato oltre la soglia dei dodici mesi e la stessa circolare del Ministero del Lavoro n. 17/2018 ha, per così dire, stretto ancora di più le “maglie interpretative”.
Di qui la corsa degli operatori a trovare forme “legali” di aggiramento della disposizione, in una logica che ha visto, in molti casi, il ricorso alle attività stagionali contrattualmente previste con un ampliamento della casistica ed in altri, alla stipula di contratti di prossimità, secondo la previsione contenuta nell’art. 8 del D.L. n. 138/2011, convertito, con modificazioni, nella legge n. 148.
Ed è proprio su questi ultimi che intendo soffermare la mia attenzione sottolineandone sia le potenzialità che le questioni operative che vanno tenute sempre presenti.
Fin dalla approvazione della legge, i contratti di prossimità sono stati visti con particolare sfavore da parte di alcune organizzazioni sindacali (“in primis” la CGIL e le proprie articolazioni territoriali e di categoria) che hanno individuato in tale strumento una pericolosa possibilità di deroga “in peius” sia della contrattazione collettiva nazionale, per le materie non delegate, che dei dettati normativi concernenti istituti contrattuali particolarmente delicati.
La rigidità della nuova impostazione “legale” sulle causali (le motivazioni di alcune di esse sono, in molti settori, sostanzialmente inutilizzabili) ed il fatto che non sia stata data alle parti sociali la possibilità di definirne di ulteriori, stanno spingendo le imprese a sottoscrivere accordi ove viene superato il tetto dei dodici mesi senza l’apposizione di alcuna condizione. In tale operazione, sovente, a fronte delle richieste dei lavoratori a tempo determinato che alla scadenza dell’anno dall’assunzione vedono cessare il proprio rapporto e si accorgono di essere sostituiti da altri lavoratori, in una sorta di “turn over della precarietà”, vengono sempre più coinvolte le organizzazioni sindacali che debbono, in qualche modo, rispondere a tale tipo di esigenze.
Prima di entrare nel merito dei contenuti della norma, occorre, a mio avviso, tener presente un fatto importante: il Legislatore, sovvertendo l’ordine delle “fonti del diritto”, affida alla contrattazione collettiva il compito di derogare alla legge: si tratta di una eccezione la quale comporta, in caso di contenzioso giudiziale, un esame approfondito nella forma e nel merito della c.d. “clausola di scopo”, inserita nell’accordo, e del suo integrale rispetto.
Ma chi sono i soggetti che possono stipulare accordi di prossimità la cui valenza può essere aziendale o territoriale?
La risposta la fornisce il comma 1 il quale affida tale onere ad associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale o territoriale o alle “loro” rappresentanze sindacali (RSA o RSU) che operano all’interno dell’azienda interessata ai sensi sia della normativa vigente che degli accordi interconfederali, a condizione che le intese siano sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario riferito alle predette rappresentanze sindacali. Ciò significa che per queste ultime, in caso di disaccordo di una sigla aziendale, valgono, laddove esistenti, i principi e le modalità di consultazione previste dall’accordo interconfederale sulla rappresentanza (ad esempio, Confindustria, CGIL, CISL e UIL).
Ma, come dicevo pocanzi, uno dei punti focali dal contratto di prossimità è rappresentato dagli “obiettivi di scopo” che consentono di derogare alla legge o al contratto collettivo. Essi sono:
- maggiore occupazione;
- qualità dei contratti di lavoro;
- adozione di forme di partecipazione dei lavoratori;
- emersione del lavoro irregolare;
- incrementi di produttività e di salario;
- gestione delle crisi aziendali e occupazionali;
- investimenti ed avvio di nuove attività.
Quali materie in cui l’azienda e le pari sociali sopra indicate possono intervenire?
Il Legislatore ne individua parecchie ed è soltanto su queste che si può effettuare l’intervento derogatorio. Esse riguardano:
- gli impianti audiovisivi e l’introduzione di nuove tecnologie (ad esempio, l’art. 4 della legge n. 300/1970);
- le mansioni del lavoratore, la classificazione e l’inquadramento (ad esempio, l’art. 2103 c.c.);
- i contratti a termine (ad esempio, gli articoli da 19 a 29 del D.L.vo n. 81/2015, come riformato dai contenuti introdotti con il D.L. n. 87/2018);
- i contratti ad orario ridotto, modulato o flessibile (ad esempio, gli articoli sul tempo parziale contenuti nel D.L.vo n. 81/2015);
- il regime della solidarietà negli appalti (art. 29 del D.L.vo n. 276/2003) che, però, non potrà “toccare” la solidarietà per gli oneri contributivi ed assicurativi che sono di competenza di soggetti terzi come gli Istituti previdenziali, come chiarito, in via amministrativa, dal Ministero del Lavoro);
- la casistica per il ricorso alla somministrazione di lavoro;
- la disciplina dell’orario di lavoro;
- le modalità di assunzione e di disciplina dei rapporti di lavoro, comprese le c.d. “prestazioni parasubordinate” e le partite IVA;
- la trasformazione e la conversione dei contratti di lavoro;
- le conseguenze legate al recesso dal rapporto di lavoro (ad esempio, la disciplina dell’art. 18 della legge n. 300/1970 in favore degli assunti con le c.d. “tutele crescenti”), con le eccezioni legate alle ipotesi di nullità del licenziamento, come ben precisato nella legge di conversione.
Ma, vi sono dei limiti di deroga al dettato normativo?
Si, vi sono e il comma 2-bis li individua nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti al nostro Paese dal rispetto delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali in materia di lavoro. Ciò significa, è bene precisarlo, soprattutto, rispetto delle Direttive Comunitarie.
Fatta questa premessa di carattere generale, ritengo opportuno entrare nel merito di questa riflessione che concerne l’eventuale deroga nella normativa sui contratti a tempo determinato come, da ultimo, delineati dal D.L. n. 87/2018 convertito, con modificazioni, nella legge n. 96.
Nell’accordo di prossimità va, innanzitutto, individuato un “obiettivo di scopo” tra quelli previsti al comma 1: ad esempio, potrebbe essere coerente con la deroga, la “maggiore occupazione” a tempo indeterminato.
Il richiamo, a mio avviso, non può essere generico ma va fissato un percorso ed una percentuale di stabilizzazioni dei contratti a termine che andrà rispettata se non si vorrà compromettere l’efficacia e la validità del contratto aziendale, le cui conseguenze, in caso di accertamento giudiziale che dovesse portare ad una dichiarazione di “non rispondenza” dello stesso rispetto all’obiettivo di scopo, sono facilmente immaginabili.
Quali sono gli spetti della normativa che possono essere cambiati?
Nella sostanza, tutti, a cominciare dai più “critici” come l’allungamento dei termini di durata massima del periodo di “acausalità” del contratto a termine, l’introduzione di causali diverse od aggiuntive rispetto a quelle legali, il numero delle proroghe, l’eliminazione o la riduzione dello “stop and go”, e così via. Mi sembra, comunque, il caso di precisare, pur se la cosa appare superflua, che con l’accordo di prossimità non si può incidere, in alcun modo, sul contributo progressivo dello 0,50% che, se dovuto, va “incamerato” dall’INPS ad ogni rinnovo. La ragione di tale asserzione è semplice: non si può toccare, con un contratto tra le parti, quanto dovuto, per legge, a soggetti terzi.
Si potrebbe, ad esempio, pensare ad una nuova normativa sui contratti a tempo determinato che, vincolando il datore di lavoro ad aumentare l’occupazione con una certa (anche alta) percentuale di stabilizzazione dei rapporti al termine del periodo considerato con la trasformazione in contratti a tempo determinato, stabilisca una durata di ventiquattro o trentasei mesi di assenza di causali, lasciando invariato il numero delle proroghe o leggermente aumentandolo. Ovviamente, il mancato rispetto di quanto fissato con l’obiettivo di scopo, farebbe venir meno i principi sui quali si basa la deroga, che, rispetto, si presenta come un fatto eccezionale.
Ma, un accordo come quello sopra ipotizzato, è in linea con la Direttiva comunitaria n. 1999/70/CE sui contratti a termine che ha recepito l’accordo delle parti sociali a livello europeo?
La risposta è positiva in quanto la clausola 5 del predetto accordo (misure di prevenzione degli abusi) prevede che nei rapporti a tempo determinato debbano necessariamente essere presenti una o più misure relative a:
- ragioni oggettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
- durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
- numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
Da ultimo, un ulteriore onere per il datore di lavoro è rappresentato dal deposito dell’accordo presso la sede dell’Ispettorato territoriale del Lavoro competente per territorio. La norma di riferimento è contenuta nell’art. 14 del D.L.vo n. 151/2015 che recita: “I benefici contributivi o fiscali e le altre agevolazioni connesse con la stipula di contratti collettivi aziendali o territoriali sono riconosciuti a condizione che tali contratti siano depositati in via telematica presso la Direzione (“rectius” Ispettorato) territoriale del Lavoro competente, che li mette a disposizione, con le medesime modalità, delle altre Amministrazioni ed Enti Pubblici interessati”.
Il deposito dell’accordo, pur in assenza di chiarimenti amministrativi del Ministero del Lavoro, è necessitato dal fatto che il Legislatore parla di “altre agevolazioni” e non solo di quelle contributive o fiscali che, nel caso di specie, non sussistono. Nell’accordo di prossimità sui contratti a termine si è in presenza di agevolazioni di natura normativa che scaturiscono da deroghe alla legge o alla contrattazione collettiva nazionale e, quindi, è opportuno e necessario che i contenuti siano portati a conoscenza degli organi periferici di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.