Lavoro a chiamata: valgono i limiti del contratto a termine?

Al lavoro intermittente devono applicarsi le disposizioni del decreto Dignità sulla durata massima e sulle causali che valgono per il contratto a tempo determinato?

Il lavoro a chiamata, o lavoro intermittente, è una delle tipologie contrattuali più flessibili: consente al datore di lavoro, difatti, di servirsi dell’attività del dipendente soltanto all’occorrenza, in modo discontinuo. Questo contratto, detto anche job-on-call, è particolarmente importante per le aziende che devono gestire picchi stagionali o sensibili variazioni di attività nel corso dell’anno, sia in considerazione delle difficoltà di utilizzo dei nuovi voucher (contratti di prestazione occasionale), sia in considerazione dei nuovi limiti ai quali sono andati incontro col decreto Dignità il contratto a termine ed il contratto di somministrazione.

A proposito del decreto Dignità, però, per il lavoro a chiamata valgono i limiti del contratto a termine?

Si devono, cioè, applicare anche al lavoro intermittente i numerosi “paletti” previsti dal nuovo decreto che regolamenta il rapporto a tempo determinato, come le causali obbligatorie, la durata massima pari a 24 mesi ed il massimo di 4 proroghe?

Per rispondere alla domanda, dobbiamo prima aprire una breve parentesi sul funzionamento del lavoro a chiamata.

Come funziona il lavoro a chiamata
Attraverso il contratto di lavoro a chiamata, o intermittente, il dipendente si rende disponibile a svolgere una specifica prestazione, ma solo dietro apposita chiamata del datore di lavoro.

Il contratto di lavoro a chiamata può essere di due tipi:

  • con obbligo di rispondere alla chiamata del datore di lavoro: in questo caso, il lavoratore ha diritto a un’indennità per i periodi in cui resta a disposizione;
  • senza obbligo di rispondere alla chiamata: in quest’ipotesi il dipendente non ha diritto ad alcuna indennità, in assenza della prestazione lavorativa.

Rispetto all’ordinario contratto di lavoro subordinato (dipendente), manca dunque la continuità della prestazione lavorativa: per questo motivo, il contratto intermittente è spesso utilizzato al posto dei nuovi voucher, cioè dei contratti di prestazione occasionale, ed in generale per le attività saltuarie e discontinue.

È possibile utilizzare il contratto di lavoro a chiamata, per ciascun dipendente con lo stesso datore di lavoro, sino a un massimo di 400 giornate effettive nell’arco di 3 anni: a questa regola fanno eccezione solo le attività svolte nei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.

Lavoro a chiamata e lavoro a termine
Pur non essendo un rapporto con una durata illimitata, il lavoro a chiamata non è un contratto a termine, ma è una tipologia di rapporto a sé. Rispetto al contratto a tempo determinato, difatti, manca la continuità dell’attività lavorativa: in parole semplici, mentre il lavoratore a termine presta la propria opera in modo regolare e continuativo, sino alla scadenza del contratto, il lavoratore a chiamata presta la propria opera solo su richiesta del datore di lavoro.

La previsione di un’indennità, nelle ipotesi in cui il dipendente si sia obbligato a rispondere alla chiamata, non cambia la sostanza del rapporto intermittente, che non rappresenta una sottocategoria del rapporto a termine.

Di conseguenza, al contratto a chiamata non devono applicarsi le regole valide per il rapporto a tempo determinato, quindi nemmeno le rigide limitazioni previste dal decreto Dignità: niente causale obbligatoria del contratto (in caso di durata superiore a 12 mesi o di rinnovo), quindi, né durata massima pari a 24 mesi, né numero massimo di proroghe pari a 4, o periodo di stop and go (cioè di pausa contrattuale) pari a 10 o 20 giorni.

Tuttavia, il fatto che non debbano applicarsi le limitazioni del decreto Dignità non significa che non si debba applicare alcun genere di limitazione, tutt’altro: per l’utilizzo del contratto a chiamata sono previste delle regole molto severe.

Lavoro a chiamata: solo per poche attività
Innanzitutto, il lavoro a chiamata non è ammesso per tutte le attività, ma può essere utilizzato per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate:

  • dai contratti collettivi (nazionali, territoriali o aziendali);
  • da un apposito decreto del ministro del Lavoro; non essendo ancora stato emanato, si deve far riferimento alla tabella allegata al regio decreto in materia del 1923 [1];
  • dalla normativa sull’orario di lavoro, che definisce determinate attività come discontinue (ad esempio le prestazioni dei commessi, dei camerieri, etc.).

Attualmente, il lavoro a chiamata nel settore turistico è regolamentato dal citato regio decreto del 1923 [1], che consente il contratto intermittente per l’assunzione di:

  • custodi;
  • guardiani diurni e notturni;
  • portinai;
  • uscieri e inservienti;
  • camerieri, personale di servizio e cucina in alberghi, trattorie, esercizi pubblici in genere, carrozze-letto, carrozze ristoranti e piroscafi;
  • trasporti di persone e merci;
  • addetti ai centralini telefonici privati;
  • commessi;
  • addetti a stabilimenti di bagni e acque minerali, escluso imbottigliamento, imballaggio e spedizione;
  • impiegati di albergo che hanno rapporti discontinui con i clienti («impiegati di bureau»: capi e sottocapi del ricevimento, cassieri, segretari escluso chi non ha rapporti con i passeggeri);
  • interpreti di alberghi o agenzie di viaggio e turismo.

In base a quanto esposto, anche se per il lavoro a chiamata non valgono le causali, le possibilità di utilizzarlo sono comunque limitate a specifiche attività.

Lavoro a chiamata: periodo massimo di utilizzo del dipendente
È possibile utilizzare il contratto di lavoro a chiamata, per ciascun dipendente con lo stesso datore di lavoro, per un massimo di 400 giornate effettive nell’arco di 3 anni: a questa regola fanno eccezione le attività svolte nei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.

Se il numero di giornate viene superato, il contratto a chiamata si trasforma in un rapporto di lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato: il limite delle 400 giornate risulta dunque più stringente del limite massimo relativo al rapporto a termine, pari a 24 mesi.

Lavoro a chiamata: non tutti possono essere assunti
Il contratto intermittente non può essere stipulato con qualsiasi lavoratore, ma soltanto con i lavoratori:

  • con almeno 55 anni di età, anche pensionati;
  • che non abbiano ancora compiuto 24 anni; in questo caso l’ultima prestazione lavorativa può essere svolta entro il compimento del 25° anno di età.

Non si applica nessun limite di età soltanto per le attività lavorative di carattere discontinuo o intermittente individuate dai contratti collettivi, oppure comprese tra le attività elencate nella tabella approvata con il regio decreto del 1923.

Lavoro a chiamata: si applica lo stop and go?
Come osservato, al lavoro intermittente non devono essere applicati i limiti validi per il contratto a termine, quindi tra un contratto e l’altro non è obbligatorio il cosiddetto periodo di stop and go, o periodo cuscinetto, pari a 10 o 20 giorni (a seconda della durata complessiva del rapporto, rispettivamente inferiore o superiore a 6 mesi).

Questo, però, non comporta l’assenza di conseguenze, nel caso in cui il lavoratore intermittente presti servizio con continuità. Si deve infatti trattare di un contratto intermittente reale, basato dunque sulla discontinuità tipica di questo rapporto, le cui tempistiche di esecuzione non sono programmabili con certezza.

Il rapporto a chiamata, se usato come sostitutivo del contratto a termine, è considerato un contratto in frode alla legge, come tale nullo, quindi convertibile a tempo indeterminato.

[1] Regio decreto 2657/1923.


6 Giugno 2019