I possibili interventi del giudice sul contratto a tempo determinato [E.Massi]

La Cassazione ha ritenuto che un lavoratore che si sia dimesso da un contratto a termine del quale intenda far valere la nullità in giudizio, non può ottenere la conversione del rapporto in un contratto di lavoro a tempo indeterminato a meno che non provi che le dimissioni non risultino nulle per violenza, errore o dolo.

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 7318 del 14 marzo 2019, offre l’occasione per affrontare un argomento, quello relativo al potere del giudice di conoscere le materie strettamente correlate al contratto a tempo determinato: si tratta di una questione che, oggi, alla luce delle novità introdotte con il D.L. n. 87/2018 con le restrizioni inerenti alla tipologia contrattuale sia in termini di durata che di condizioni, appare estremamente importante.
Ma, andiamo con ordine chiarendo, innanzitutto, la portata della decisione sopra citata che ha riguardato la impugnativa di più contratti a termine affetti da nullità (con la richiesta di conversione degli stessi a tempo indeterminato – si era nel regime del D.L.vo n. 368/2001-), il cui ultimo rapporto era stato caratterizzato da dimissioni del lavoratore.

Ribaltando la sentenza della Corte di Appello di Roma, la Suprema Corte ha affermato che essendo le stesse un atto unilaterale ricettizio, il lavoratore non può ottenere la conversione del rapporto a tempo indeterminato a meno che le dimissioni “de quo” non siano viziate da errore, violenza o dolo, fermo restando (cosa importante, seppur residuale) il diritto al semplice accertamento della invalidità del termine ed alle eventuali conseguenze economiche correlate.

Le dimissioni, osserva la Corte, hanno effetto sul contratto stesso (nel caso di specie, a termine) e non possono esplicare alcun effetto sul diverso rapporto eventualmente accertato in giudizio (nel nostro caso, a tempo indeterminato).

Ma questa ipotesi che si è, brevemente, riassunta ha, indubbiamente lo scopo, di introdurre il discorso relativo, alle varie possibilità che possono essere portate alla conoscenza del giudice del lavoro relative ad alcune criticità che, oggi, più di prima, possono determinarsi, nello svolgimento del contratto a tempo determinato.

Prima di esaminare le diverse ipotesi, ritengo opportuno ricapitolare alcune novità relative alla scadenza dei termini che sono state introdotte con il c.d. “Decreto Dignità” e che vanno, necessariamente, coordinate con tutto l’articolo 28 del D.L.vo n. 81/2015.

Il D.L. n. 87/2018 (art. 1, comma 1, lettera c) ha introdotto una modifica di natura processualistica che va ad inserirsi nel comma 1 dell’art. 28: l’impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, pena la decadenza, entro centottanta giorni (prima erano centoventi) dalla sua comunicazione in forma scritta o dalla comunicazione, sempre in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale. Essa può avvenire, con qualsiasi atto, anche di natura extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore al datore di lavoro anche attraverso l’intervento di una organizzazione sindacale. Ovviamente, l’impugnazione è inefficace se non segue, con le modalità previste dal secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604/1966, il deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale in funzione di giudice del lavoro.

L’allungamento dei termini per proporre il ricorso giudiziale dovrebbe consentire, in un’ottica di prevedibile aumento delle liti legate, soprattutto, all’accertamento della veridicità delle causali, situazioni conciliative extragiudiziali tra lavoratore (magari assistito da un sindacalista o un legale) e l’azienda, con un sicuro aumento dei costi indiretti legati alla soluzione risarcitoria finalizzata ad evitare l’intervento della Magistratura.
A tal proposito ricordo anche il contenuto del comma 2 dell’art. 28: In caso di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato il giudice condanna il datore al risarcimento del danno, stabilendo una indennità onnicomprensiva in una misura compresa tra un minimo, rappresentato da 2,5 mensilità ad un massimo di 12, calcolate sull’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. L’importo viene determinato alla luce dei criteri stabiliti dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (anzianità aziendale, contesto economico, numero dei dipendenti, comportamento avuto dalle parti, ecc.). L’indennità “copre” per intero il pregiudizio subito, ivi comprese le conseguenze retributive e contributive concernenti il periodo compreso tra la scadenza del termine e la pronuncia giudiziale con la quale è stata ordinata la ricostituzione del rapporto di lavoro. Tale “risarcimento” viene dimezzato se ci si trova in presenza (comma 3) di contratti collettivi che prevedano l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie.

Il lavoratore può ricorrere in giudizio e chiedere la costituzione del rapporto a tempo indeterminato in presenza di alcune situazioni che discendono direttamente dalla norma. Mi riferisco:

  • Al contratto a termine stipulato in forma orale (con la sola eccezione prevista dall’art., 19, comma 4, per i rapporti fino a dodici giorni);
  • Al rinnovo del contratto a tempo determinato non supportato da una delle condizioni previste dal’art. 19 del D.L.vo n. 81/2015, come modificato dal D.L. n. 87/2018;
  • Al mancato inserimento della causale nella proroga al superamento della soglia dei dodici mesi: il rapporto si trasforma a tempo indeterminato;
  • Al superamento della soglia massima dei dodici mesi (ove non è obbligatoria la causale) senza che sia stata apposta alcuna condizione: in questo caso il rapporto si trasforma a tempo indeterminato a partire dalla data di superamento del termine di dodici mesi;
  • Al momento della apposizione di una proroga ulteriore rispetto alla quarta (in un arco temporale di ventiquattro mesi): il contratto si trasforma a tempo indeterminato a partire da quest’ultima;
  • Al superamento, anche in sommatoria, del limite dei ventiquattro mesi attraverso contratti a tempo determinato o in somministrazione per mansioni riferibili al livello della categoria legale di inquadramento:il contratto si trasforma a tempo indeterminato al superamento di detto limite.

Per completezza di informazione, mi sembra coerente richiamare anche i divieti previsti dall’art. 20 del D.L.vo n. 81/2015 che, se violati, comportano la costituzione del rapporto a tempo indeterminato sin dall’inizio. Essi sono:

  • La sostituzione di lavoratori in sciopero. La ragione appare evidente: si tratta di evitare, attraverso l’uso di tale tipologia contrattuale, una forma di contrasto all’esercizio del diritto costituzionale, attraverso forme di crumiraggio esterno. E’ appena il caso di ricordare come tale divieto sussista anche per altri contratti come quello intermittente o quello di somministrazione;
  • Il divieto di assunzione in sostituzione di lavoratori licenziati al termine delle procedure collettive di riduzione di personale, previste dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991. Fatta salva l’eventualità di un termine diverso previsto da accordi sindacali, esso ha una durata limitata nel tempo e nelle mansioni, nel senso che l’arco temporale di riferimento è di sei mesi dall’ultimo licenziamento ed, inoltre, il nuovo contratto a tempo determinato non deve riguardare soggetti chiamati a svolgere la medesima mansione di quelli oggetto di recesso. Fuori da questa ipotesi rimangono i contratti a contenuto sostitutivo e quelli che hanno una durata iniziale non superiore a tre mesi. L’ultima eccezione appena citata, fa riferimento al fatto che il contratto a termine abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi: ovviamente, ricorrendone le condizioni, lo stesso potrebbe arrivare fino a due anni, utilizzando anche l’istituto delle quattro proroghe (a partire dal superamento dei dodici mesi, con l’apposizione della causale) nell’arco dei ventiquattro mesi;
  • Il divieto di assunzione presso unità produttive interessate da cassa integrazione guadagni o da contratti di solidarietà difensiva che riguardi lavoratori adibiti a mansioni cui si riferisce il contratto a temine. La norma non fa alcuna distinzione tra intervento ordinario o straordinario e, senz’altro, fa salve le eventuali assunzioni a tempo determinato che riguardino lavoratori con mansioni del tutto diverse;
  • Le imprese che non hanno effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 del D.L.vo n. 81/2008, e successive modificazioni ed integrazioni. La disposizione, è contenuta anche nella previsione di altre tipologie come il “job on call” e la somministrazione: essa risponde alla necessità, particolarmente più necessaria in tutte quelle forme che prevedono lavoro flessibile, del rispetto delle norme di sicurezza, cosa che comporta per il datore di lavoro che assume a tempo determinato una adeguata formazione ed informazione alfine di prevenire i rischi specifici connessi all’esecuzione del lavoro.

Il divieto di stipulare contratti a termine in presenza di situazioni come quelle evidenziate nell’art. 20, fa sì che, in caso di controllo, possa essere lo stesso ispettore del lavoro a stabilire che il rapporto di lavoro è a tempo indeterminato sin dall’inizio, pur in presenza di una condizione apposta al contratto che, in via teorica, possa farlo ritenere legittimo. Ovviamente, l’intervento dell’organo di vigilanza, finalizzato alla riconduzione a tempo indeterminato del contratto (che, non dimentichiamolo, è la forma comune del rapporto) può avvenire anche nelle altre ipotesi citate poco più avanti come nel contratto a termine stipulato oralmente e non in forma scritta (ad eccezione di quello fino a dodici giorni lavorativi) o anche allorquando viene superata, senza causale, la soglia dei dodici mesi ove il rapporto, ex lege, si considera a tempo indeterminato a partire dalla data dello sforamento della durata massima ove è possibile non mettere la condizione.

Parimenti, ritengo, invece, che l’ispettore non possa discettare sulla genuinità della causale, con la conseguente conversione del rapporto: tale compito, come recita l’art. 28, comma 2, è riservato al giudice che, in caso di nullità, converte il contratto dal giorno della pronuncia della sentenza, condannando il datore anche al pagamento di una indennità risarcitoria per il periodo intercorrente tra la cessazione del contratto a termine e la pronuncia della sentenza.
E’ proprio sulla genuinità delle causali, ossia se, una volta apposte, siano riconducibili a quelle, in astratto previste dal Legislatore che, prevedibilmente, si giocherà in giudizio la legittimità della apposizione delle stesse. Appare evidente come, tra quelle ipotizzate (non essendo stata riservata alcuna delega alla contrattazione collettiva di individuarne altre), la più semplice da apporre sia quella determinata da esigenze sostitutive di lavoratori assenti.

Ricordo, brevemente, che le condizioni possono essere apposte per:

  • Esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’attività, ovvero per esigenze sostitutive di altri lavoratori;
  • Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.

Da tale regole obbligatorie sono esclusi i contratti stagionali (previsti dal DPR n. 1525/1963 o dalla contrattazione collettiva anche di secondo livello stipulata dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale o dalle loro RSA o dalla RSU) ove l’apposizione della causale non è richiesta pur in presenza di rinnovi.

In ogni caso è giusto ricordare che, qualora vengano apposte causali, occorrerà tener presenti alcune specificazioni che, nel corso del tempo la Magistratura di legittimità ha sottolineato:

  • La condizione da apporre al contratto a termine non deve, assolutamente, ripetere quanto già previsto dalla norma ma deve essere una esplicitazione della stessa, atteso che la mancanza di quest’ultima fa si che la stessa sia considerata generica e, quindi, inesistente. La causale, come affermato dalla Cassazione con la sentenza n. 1522 del 27 gennaio 2016, deve indicare le circostanze precise si da rendere evidente il legame tra la durata e le esigenze temporanee che giustificano l’impiego del lavoratore;
  • La causale, una volta apposta, non può essere modificata (Cass., 23 novembre 2016, n. 23864);
  • La causale, seppur legittima (ed il discorso vale anche per la somministrazione a termine), va raccordata con le mansioni effettivamente svolte dall’interessato, come ricorda la Cassazione con le sentenza n. 5372 del 7 marzo 2018;
  • Il rispetto formale della causale, non esonera, il datore di lavoro, in caso di contenzioso giudiziale, dal dover dimostrare la sussistenza delle ragioni che hanno determinato l’assunzione temporanea del lavoratore (Cass., n. 208 del 15 gennaio 2015);
  • L’introduzione della causale postula, come detto, una specifica e puntuale indicazione della esigenza oggettiva prospettata: tutto questo anche in un’ottica di correlazione con le mansioni per il quale il lavoratore è stato effettivamente assunto in modo da verificare che lo stesso sia effettivamente adibito ai compiti che si deducono dalle esigenze aziendali. Tale principio si evince dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 22188 del 12 settembre 2018 emanata con riferimento alle condizioni previste dal D.L.vo n. 368/2001 ma che acquista una propria rilevanza anche alla luce delle causali reintrodotte con il D.L. n. 87/2018.

23 Aprile 2019


Fonte : Dottrina Lavoro