Durata massima dei contratti a tempo determinato, un’analisi per comprendere tutti i cambiamenti che comporta il passaggio al nuovo “DL Dignità”
D.L. n. 87/2018, modificando il comma 2 dell’art. 19 del D.L. vo n. 81/2015, ha stabilito, in via generale, che i contratti a tempo determinato, riferiti a mansioni dello stesso livello della categoria legale di inquadramento, non possano superare, in sommatoria, tra contratto a termine, rinnovi, proroghe e rapporti in somministrazione, la soglia massima dei 24 mesi. Tale modifica è intervenuta sostituendo, semplicemente, la parola “trentasei” con la parola “ventiquattro”.
Tale premessa è importante per comprendere cosa, effettivamente, sia cambiato rispetto al passato, con riferimento al limite massimo di durata: ovviamente, il contratto a termine è profondamente mutato su altre questioni ben più incisive come, ad esempio, la reintroduzione delle causali, il cui esame, però, non è oggetto di questa riflessione.
Il superamento del nuovo limite di ventiquattro mesi, sia per effetto di un unico contratto che per una successione di rapporti a termine, comporta la trasformazione a tempo indeterminato del contratto stesso a partire dalla data in cui la soglia è stata superata.
Quanto appena detto impone alcuni chiarimenti che possono così sintetizzarsi:
- la sommatoria dei rapporti a termine comprende tutti i rapporti, anche prorogati (con il D.L. n. 87/2018 le proroghe sono scese da cinque a quattro), ed i contratti di somministrazione a tempo determinato nel quale il lavoratore è stato utilizzato. Come affermato dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 18 del 18 luglio 2012, la sommatoria relativa ai contratti a termine riguarda tutti i rapporti che furono stipulati dal datore di lavoro con il lavoratore anche in anni poco recenti: ovviamente, si deve trattare di mansioni riferibili al livello della categoria legale di inquadramento (e, quindi, contratti uguali). Diverso è il discorso relativo alla somministrazione: la cui computabilità nasce dalla legge n. 92/2012.
Ebbene, il Dicastero del Lavoro, con la nota sopra citata, stabilì che il calcolo doveva avvenire a partire dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della legge n. 92. Ritengo che, tale indirizzo consolidato e già sperimentato anche nel testo vigente dopo la riforma contenuta nel D.L.vo n. 81/2015, debba essere, in via amministrativa, confermato.
Nella sommatoria (perché, espressamente, non richiamati) non rientrano prestazioni, anche per le stesse mansioni, avvenuti con contratto di lavoro intermittente, con lavoro accessorio, con prestazioni occasionali ex art. 54-bis della legge n. 96/2017, con contratto a tempo indeterminato, con rapporto di apprendistato, con contratto di inserimento (ormai abrogato) oltre che con contratto a termine (fino ad un massimo di dodici mesi) ex art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991 per i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità: tale ultima esclusione risulta, chiaramente, dalla affermazione contenuta nell’art. 29, comma 1, lettera a) del D.L.vo n. 81/2015. Dal computo sono altresì’, esclusi, tra gli altri (art. 29, comma 1 e 2), i rapporti di lavoro a termine degli operai agricoli, i contratti di lavoro del personale dirigenziale, i rapporti per l’esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni nei settori del turismo e dei pubblici esercizi, i rapporti del personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale e quelli, a termine, del personale docente ed ATA e quello sanitario del Servizio Sanitario Nazionale. Nel computo non rientrano anche i rapporti di lavoro a carattere stagionale, attivati, nel rispetto del D.P.R. n. 1525/1963 e degli accordi collettivi; - caratteristiche legate alla sommatoria: il calcolo va effettuato relativamente ai rapporti intervenuti con lo stesso datore ma, tuttavia, laddove, come ad esempio si sia registrato un passaggio o trasferimento di azienda o ramo di esso con le garanzie previste dall’art. 2112 c.c., il cessionario deve computare anche il passato, in quanto il lavoratore a termine in forza “si porta dietro” anche i periodi trascorsi a tempo determinato presso il datore di lavoro “cedente”;
- mansioni riferibili allo stesso livello della categoria legale di inquadramento: la frase utilizzata è quella inserita nell’art. 3 del D.L. vo n. 81/2015 che ha modificato l’art. 2103 c.c. . Nella sostanza, alla tradizionale e consolidata dizione di “mansioni equivalenti”, si è sostituita quest’altra che ha uno specifico richiamo al contratto collettivo ed alle mansioni, magari diverse, svolte “in orizzontale” lungo lo stesso livello. Da quanto appena detto emerge un’altra considerazione. Se il lavoratore ha svolto più contratti a termine, anche in somministrazione, con lo stesso datore ma con diversi inquadramenti sia di livello che di categoria legale (operaio, impiegato, quadro) non si ha alcuna sommatoria tra gli stessi.
Ma, l’articolo 19, al comma 2, presenta due forti eccezioni al limite massimo dei ventiquattro mesi.
Con la prima si fanno salve le “diverse disposizioni dei contratti collettivi” i quali, secondo la definizione che ci ha fornito il successivo art. 51, possono essere quelli nazionali, territoriali od aziendali, sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle “loro” RSA o dalla RSU.
Questo principio, che non è stato, minimamente, “toccato” dalla riforma ha fatto si che nel corso degli anni, il termine, allora presente, di trentasei mesi, fosse abbondantemente superato anche con accordi aziendali. Tra tutti mi preme citare, a titolo di esempio, quello intervenuto nel settore dell’industria metalmeccanica ove, il limite massimo è stato portato a quarantaquattro mesi in sommatoria tra rapporti a termine e contratti di somministrazione.
Tutto questo ha portato a soluzioni, anche aziendali, ampiamente variegate che, a mio avviso, restano pienamente valide, pur con un limite, oggi, fissato a ventiquattro mesi.
La ragione di tale mio giudizio risiede in due considerazioni:
- non è stata toccata “la riserva legale” riconosciuta alle organizzazioni sindacale ad ogni livello;
- la norma “novellata” non ha posto alcun limite “di tempo massimo” al potere delegato alle associazioni sindacali, né ha detto nulla, anche per il futuro, per le deroghe in essere affidate alla contrattazione collettiva.
La seconda eccezione concerne il contratto a termine stipulato per l’esecuzione di “attività stagionali” individuate, in attesa dell’apposito D.M. di riforma del Ministro del Lavoro (sono già passati più di tre anni e nulla è successo) dal D.P.R. n. 1525/1963 e dalla contrattazione collettiva che, in questi anni, si è molto data da fare sulla materia (basti pensare al settore turistico).
Le strade del contratto stagionale, per il quale, opportunamente, il D.L. n. 87/2018 non prevede l’apposizione di alcuna causale, e del “normale” contratto a tempo determinato sono “parallele” e destinate a non incontrarsi mai: infatti, al primo non si applicano il limite dei ventiquattro mesi e lo “stop and go” e lo stesso diritto di precedenza di cui, ampiamente, parla l’art. 24, è diverso tra l’uno e l’altro, in quanto nel contratto stagionale, una volta esercitato per iscritto (entro tre mesi dalla cessazione), vale per un altro rapporto a tempo determinato “legato” ad una campagna stagionale, mentre nell’altro è portatore, entro dodici mesi dalla cessazione, di un possibile contratto a tempo indeterminato riferibile alle mansioni già espletate (per le donne in astensione “pre – post partum” il diritto di precedenza vale anche per un rapporto a termine).
Da quanto appena detto, per restare nell’oggetto di questa riflessione, sottolineo il fatto che, essendo correlato ad un numero indefinito di “campagne stagionali”, non esiste un limite temporale massimo oltre il quale, in caso di sforamento, il rapporto diviene a tempo indeterminato (in pratica, si può restare “stagionale” per tutta la vita lavorativa).
Ovviamente, non è assolutamente escluso che un lavoratore “stagionale” possa essere assunto con un normale contratto a tempo determinato in un altro periodo dell’anno (ad esempio, per esigenze sostitutive di altro dipendente): in questo caso si vengono a creare due situazioni diverse che viaggiano in parallelo e, per questo secondo rapporto, valgono le regole generali dei ventiquattro mesi come limite massimo.
Le ipotesi che sono state, finora, esaminate non sono le uniche che consentono di superare la soglia dei ventiquattro mesi.
Mi riferisco a quell’ulteriore contratto definito “in deroga assistita” e già presente all’interno del D.L. vo n. 368/2001, che è stato confermato nel D.L.vo n. 81/2015 (art. 19, comma 3) e che la “riforma” del D.L. n. 87/2018 non ha, minimamente, “toccato”.
L’attuale previsione fa salva l’eventuale diversa determinazione delle parti sociali, anche a livello aziendale (che, ad esempio, potrebbero escludere tale intervento), e stabilisce che l’ulteriore contratto stipulato alla scadenza dei ventiquattro mesi avanti all’Ispettorato territoriale del Lavoro (che ha ereditato le competenze della vecchia Direzione territoriale del Lavoro), abbia una durata massima di dodici mesi e che il mancato rispetto della procedura, nonché il superamento del termine stabilito nel contratto, comportano la qualificazione dello stesso come rapporto a tempo indeterminato a partire dalla data della stipula.
Mi sembra opportuno sottolineare come per i contratti in essere alla data del 14 luglio 2018, giorno di entrata in vigore del D.L. n. 87/2018, e che continuano fino al termine massimo dei trentasei mesi, l’ulteriore contratto sia attivabile a tale scadenza, atteso che l’art. 1, comma 2, del provvedimento appena citato, afferma che le nuove disposizioni si applicano ai contratti a termine ed ai rinnovi stipulati successivamente.
Prima di entrare nel merito di quanto contenuto nella circolare n. 13/2008 del Ministero del Lavoro che fornì alcune indicazioni alle articolazioni periferiche ora passate alle dipendenze dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, vanno, a mio avviso, effettuate alcune considerazioni.
La prima è che, trattandosi di un nuovo contratto a termine che trova origine in una norma di legge esso può essere stipulato e può iniziare senza che sia trascorso l’intervallo di dieci o venti giorni correlati alla durata del precedente contratto.
La seconda riguarda la “non apponibilità della proroga”, nel senso che se stipulato, ad esempio, per sei mesi non può essere prorogato fino a dodici, in quanto le proroghe, che sono quattro, possono essere utilizzate soltanto nell’arco temporale dei primi ventiquattro mesi.
La terza concerne la non necessità della presenza di un rappresentante sindacale accanto al lavoratore, un tempo prevista dal D.L. vo n. 368/2001: il Legislatore delegato ritiene che sia sufficiente la funzione di garanzia esercitata dal funzionario dell’Ispettorato del Lavoro, pur non essendo, a mio avviso, esclusa la possibilità che il dipendente si faccia assistere da un esponente sindacale dell’associazione alla quale sia iscritto o abbia conferito il mandato.
La quarta riguarda la necessità della introduzione di una causale da scegliere tra quelle individuate dal nuovo D.L. n. 87/2018, in quanto si tratta di un nuovo contratto.
La quinta viene individuata nella necessità del pagamento del contributo aggiuntivo dello 0,5% in quelle ipotesi che già comportano il pagamento del contributo ulteriore dell’1,40% (ne sono escluse, ad esempio, quelle per ragioni sostitutive di lavoratrici assenti per maternità).
La sesta concerne le eventuali tipologie di contratto a termine escluse dalla procedura: qui la circolare n. 13/2008 cita espressamente:
- il contratto a termine dei dirigenti per i quali resta fissato a cinque anni il limite massimo e che godono (art. 27) di una disciplina specifica;
- il contratto di lavoro stagionale.
Appare oltremodo auspicabile un sollecito aggiornamento amministrativo della circolare n. 13/2008, magari attraverso un intervento condiviso dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (sul quale gravano le competenze esercitate dalle proprie strutture periferiche) e della Direzione Generale dei Rapporti di Lavoro e delle Relazioni Industriali del Ministero, competente per materia.
La circolare ministeriale n. 13/2008 affida all’Ispettorato territoriale del Lavoro una funzione “notarile” ma, ritengo che il funzionario non possa non fornire chiarimenti e consigli sulla procedura e sui principi generali che regolano l’istituto, sottolineando sia la necessità della causale, che l’impossibilità di prevedere proroghe.
Alcune questioni vanno, infine, esaminate e risolte, affinché l’istituto della “deroga assistita” possa avere una completa agibilità.
La prima riguarda la competenza territoriale che viene individuata che è quella dell’Ispettorato del Lavoro nella quale insiste il luogo ove il lavoratore è destinato a svolgere la propria attività: ciò non toglie che lo stesso, successivamente, possa essere impiegato in una sede diversa, nel rispetto dei dettati contrattuali e della legge.
La seconda, strettamente correlata alla prima, concerne l’ipotesi in cui il contratto in deroga venga stipulato avanti ad un Ispettorato del Lavoro incompetente per territorio: tale patto sarebbe valido o no?
Se la volontà delle parti è espressa senza alcuna costrizione, se il contratto individuale ha rispettato i contenuti di legge o dell’eventuale accordo collettivo cui faccia riferimento, ritengo che, per il principio generale della conservazione degli atti, lo stesso possa validamente esplicare i propri effetti. È questo, nella sostanza, lo stesso concetto che è alla base della validità di un accordo raggiunto avanti ad una commissione provinciale di conciliazione (art. 410 c.p.c.) incompetente.